46 ANNI FA L’UOMO SBARCAVA SULLA LUNA! MA QUANTI LO HANNO RICORDATO? UNA RIFLESSIONE DI KURTZ ROMMEL

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« Here men from the Planet Earth first set foot upon the moon, July 1969, A.D.
We came in peace for all mankind. »

Questa è la frase incisa sulla targa lasciata esattamente 46 anni fa dagli uomini della missione Apollo 11 che misero piede sulla Luna, al termine di un viaggio di andata mai compiuto prima da alcun essere umano.
Su questa missione è stato detto e scritto di tutto: dalla retorica più fasulla alle più idiote ed inconsistenti illazioni, spacciate per “prove”, “teorie” e “rivelazioni”, relative ad un inesistente progetto di falsificazione dell’intero programma, ovviamente demolite a dovere dai “debunker-servi-del-sistema”.
Ad oggi, dopo quasi mezzo secolo, le tracce delle varie missioni sono ancora là: gli stadi inferiori dei moduli, la strumentazione lasciata sul suolo, le impronte degli scarponi e delle ruote di un primitivo ma funzionale veicolo, le bandiere issate nei siti di arrivo. Tutti quanti debitamente ripresi dalla sonda LRO, nel 2009.
Tutti pezzi di vera e propria archeologia tecnologica, a ben vedere, peraltro ancora funzionanti, ma coi quali l’uomo riuscì a staccarsi dal suolo terrestre, e ad arrivare su un corpo celeste.
Equipaggiamenti che oggi sarebbero ridicoli, come capacità operativa: il computer utilizzato per la fase di allunaggio, montato sul modulo di discesa Eagle, il famoso LEM, soprannominato “il ragno”, si bloccò proprio durante la fase più delicata, a causa di un’imprevista saturazione della sua memoria che gli impedì di effettuare i calcoli necessari. Aldrin, messa mano al regolo aeronautico, rifece tutti i conti al volo, mentre Armstrong pilotava il modulo seguendone le direttive.
Quasi mezzo secolo fa, un’eternità in campo tecnologico ed ancor più in quello aerospaziale (e lo dico da pilota), con degli equipaggiamenti che oggi farebbero ridere, più arretrati di un vecchio Nokia 3310, e con forse un terzo della sua capacità di elaborazione, l’uomo arrivava letteralmente là “dove nessun uomo era mai stato prima”. Fu un’impresa assolutamente titanica, che non ebbe più altro termine di paragone.
Stamattina con tutta calma ho dato un’occhiata a fb sul mio cellulare, che ormai sta morendo (dopo soli 3 anni di uso… altro che i reperti tecnologici di mezzo secolo fa) e ci mette 12 secondi a fare il refresh di una schermata. Le solite stronzate. Post inutili di amicizie del tutto virtuali con battute ed immagini scontate, spamming, messaggi di gente che nemmeno conosco, culi di veline, tette rifatte, l’ennesimo rigore di non so nemmeno chi … Ma lo volete capire che non me ne frega niente del calcio, una buona volta?

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Insomma, la solita invasione di ignoranza e superficialità da baraccone.
Anche su un paio di gruppi a tema aeronautico, che mi sono a questo punto premurato di abbandonare dopo la dovuta cazziata, nessuno si era ricordato che fosse il 20 luglio. Il solo a rispondermi è stato un utente che ha abbozzato un “eh vabbè, ma mica sono i 50 anni…”. Ok, e tu festeggi il tuo compleanno solo ogni 10 anni? Non dico di farne un giubileo, ma almeno uno straccio di post ci andrebbe.
L’unico ad aver postato la sola cosa sensata, cioè ad aver ricordato che cosa è successo esattamente 46 anni fa, è stato Alberto Alpozzi, il contestatissimo fotografo che ha “osato” sfidare la (anti)memoria di regime col suo bellissimo libro, “Il faro di Mussolini”.
L’unico.

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Mi sono guardato ancora più attorno. Ho visto un mondo che sta andando alla deriva, tra guerre che non fa comodo ricordarsi essere troppo vicine, crisi economiche che stanno letteralmente uccidendo migliaia di famiglie, governi inadatti a gestire un paese mai voluti dai cittadini, tassazioni a livelli da usura legalizzata.
Immediatamente mi è salita la carogna, ma poi ci ho riflettuto (sì, ho questa brutta abitudine… usare il cervello), e mi sono reso conto che è tutto normale. Tutto disperatamente, irrecuperabilmente normale.
Oggi ho avuto l’ennesima, ormai inutile conferma, del fatto che il genere umano attorno a me è in gran parte composto da idioti, capaci solo di lamentarsi senza fare nulla, se non scappare come conigli di fronte a delle normali difficoltà. Idioti il cui unico scopo è quello di prendere mezza briciola oggi, senza pensare al domani.
Idioti ormai succubi di un sistema perverso e cinico, che li schiavizza dandogli una marea di stupidaggini da cui dipendere, per poi minacciarli con la paura di togliergliele: solo chi non ha più nulla da perdere diventa un pericolo, mentre invece chi ha paura di perdere anche solo una briciola starà sempre zitto in un angolo, subendo passivamente tutte le ingiustizie di cui poi si lamenta.
Gli stessi idioti che vedo la sera a prendere il solito aperitivo, di norma 10 euro per un bicchiere di acqua sporca e un vassoio di schifezze stantie, lasciate lì dalla pausa pranzo, tutti col cellulare in mano, a fissare lo schermo, anziché parlare con la persona che hanno davanti, per poi lamentarsi che si sentono tanto soli.
Gli stessi idioti che si lamentano delle tasse troppo alte e degli stipendi troppo bassi, ma poi hanno le ferie già prenotate e l’ultimo smartphone in tasca.
Gli stessi idioti che si lamentano di essere a lavorare in un call center, o per qualche cooperativa che li sottopaga, con una laurea in mano, ma che poi non sanno come utilizzarla proficuamente.
Gli stessi idioti di cui, usando le parole di un noto politico, ovviamente a loro tempo censurate, “non c’è bisogno di preoccuparsi, fino a quando scenderanno in piazza solo per uno scudetto”.

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50 anni fa avevamo di meno, in termini di possesso materiale, ma avevamo cose realmente utili. Oggi siamo sommersi di spazzatura, che ci viene detto essere indispensabile, e che alla fine per troppi di noi lo diventa. Siamo strapieni di roba che, alla fine, nemmeno desideriamo realmente, ma che ci viene solo imposta.
50 anni fa, dall’altro lato del mondo, sia ad ovest che ad est, ragazzi di 25 anni progettavano macchine in grado di portare un uomo nello spazio. Macchine grezze, piene di errori progettuali, oggi obsolete (beh, non tutte: i razzi Sojuz russi funzionano benissimo e ad oggi sono gli unici realmente operativi, dopo la geniale idea della messa a terra degli Shuttle americani), ma che facevano il loro lavoro.
Per carità, anche oggi è così: anche oggi abbiamo (negli altri paesi, guardacaso…) ragazzi che progettano il nostro futuro.
I soliti ben informati hanno criticato, di recente, la nostra astronauta, Samantha Cristoforetti: “Eh, ma cosa è andata a fare lassù, sono solo soldi sprecati…”. A parte l’invidia per il risultato ottenuto da una donna, in un mondo ancora profondamente maschilista, sarebbe meglio se guardassero una lista degli esperimenti che ha condotto, ed iniziassero a meditare su tutte le future ricadute che avranno.

Ma qualcosa è cambiato. Non abbiamo più un mondo diviso in due blocchi, il cui scopo era il predominio sulla parte avversa, ed il cui modo di funzionare portava un continuo progresso tecnologico.
Progresso serio, non quello dell’ultima versione della tale app o dell’ultimo smartphone che cambia solo in due dettagli invisibili. In un secolo scarso siamo passati dal Flyer dei fratelli Wright allo sbarco sulla Luna.
Oggi il progresso è rallentato. Lo vedo in campo aeronautico, quello di cui mi interesso maggiormente. Che cosa abbiamo, oggi, di realmente rivoluzionario, di paragonabile a quello che fu il passaggio dal motore a pistoni al motore a reazione? Nulla. Abbiamo solo qualche aereo di linea sempre più grosso, sempre più comodo, sempre più moderno negli allestimenti, ma che alla fine si basa su studi di 50 anni fa.
Il settore spaziale, poi, è in crisi totale. Ci vantiamo tanto della ISS, ma non dimentichiamoci che è solo la stazione spaziale attualmente in servizio, nulla di più. Prima ci fu la Mir, ed ancora prima ci furono tutte le stazioni americane e sovietiche, che scrissero pagine epiche di storia astronautica. Le missioni Gemini, con gli attracchi ai sistemi Agena, lo Skylab, che fu il primo laboratorio americano realmente in orbita, le stazioni sovietiche Salyut e le ancor meno conosciute Almaz, fino appunto alla Mir, furono i simboli di un’epoca ormai definitivamente tramontata.

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In campo militare, poi, non parliamone. Ed il campo militare, che piaccia o no, è il principale terreno di nascita di tutti i ritrovati tecnologici che poi vengono riversati nel mondo civile. Il touchscreen dei nostri smartphone (notare, nemmeno più in italiano si riesce a scrivere…), da dove si crede che arrivi? O il radar, che ha salvato innumerevoli vite? O la stessa medicina?
Perché 50 anni fa ci siamo riusciti, ed oggi invece ci siamo ridotti così? Perché 50 anni fa il progresso era un desiderio, una necessità, un motivo vero e tangibile per il sacrificio che richiedeva?
Perché 50 anni fa avevamo un obbiettivo. Sapevamo cosa dovevamo raggiungere, e ci siamo impegnati per farlo. Ci siamo riusciti. Ci siamo impegnati, abbiamo studiato, abbiamo risolto tutti i problemi che abbiamo incontrato, perché dovevamo “essere là”, e dovevamo esserci per primi.
50 anni fa il mondo era diverso: era un mondo guidato dallo scontro tra due blocchi, uno scontro duro e serrato, combattuto a colpi di missioni spaziali, di sviluppo tecnologico su ogni fronte, di economia, di spionaggio politico ed economico. Era un mondo in ascesa, guidato da interessi politici ed economici basati sul dualismo della guerra fredda, e sulla reale necessità di rendere il predominio economico e tecnologico una forma di deterrenza.
50 anni fa avevamo un “nemico”, reale, tangibile, identificabile, da ognuna delle due parti del muro. Sapevamo, o ci veniva detto che fosse così, che quello era il “nemico”.
Questo “nemico” faceva in modo che il mondo, da ambo le parti, si muovesse: e questa situazione portava, volenti o nolenti, alla necessità di progredire.
Caduto il muro, è cominciato il declino. Questo “nemico” ha cessato di esistere, e con esso la necessità che avevamo per studiare, per evolverci, per sviluppare sempre di più e sempre meglio: ed a quei tempi non avevamo tutte le stronzate ipertecnologiche (che poi tali non sono, se sono destinate al consumo di massa) assolutamente inutili di cui siamo pieni oggi.
Non avevamo fb, tablet, cellulari, internet h24, non avevamo nulla di tutta questa inutile spazzatura propinata come indispensabile. Ma avevamo qualcosa di molto più importante, e di cui evidentemente si è capito l’enorme valore, assieme al pericolo che rappresenta: avevamo un obbiettivo.
Oggi no. Non abbiamo più un obbiettivo, non abbiamo più un desiderio preciso, abbiamo solo tutta una serie di necessità indotte del tutto inutili, e che alla fine non desideriamo neanche.

OBEY
Non abbiamo più un desiderio in grado di muovere un’intera esistenza. Non abbiamo più un motivo per vivere, ma ci limitiamo ad esistere, seguendo le mode del momento, i luoghi comuni, le idiozie televisive, le tendenze commerciali, in un continuo ed insoddisfacente circolo di produzione e consumo, che alla fine consuma noi. Abbiamo troppo di tutto, ma di un “tutto” che, alla fine, è solo un mucchio di spazzatura, prodotta in serie, spersonalizzata, omologata e del tutto insoddisfacente.

Spazzatura il cui unico scopo è quello di spingerci a consumarne sempre di più, cercando qualcosa che poi nemmeno noi sappiamo cosa sia, e rimanendo eternamente insoddisfatti, per poi cercare di zittire questa nostra mancanza seppellendola sotto altri mucchi di spazzatura. Oggi noi soffriamo di una forma di bulimia, di fame chimica data da una vita senza desideri, quindi vuota, che si cerca di riempire con cose delle quali, a ben vedere, se veramente ci venissero tolte non sentiremmo nemmeno la mancanza.
Spazzatura che ci viene rifilata dai soliti spacciatori di illusioni, che la rendono una vera e propria necessità indotta, creando un sistema sociale dipendente da questa robaccia come un tossico dalla sua droga.
Ed allo stesso modo, come il tossico viene rincoglionito, dose dopo dose, dai suoi spacciatori, fino ad essere reso dipendente dal loro veleno, e costretto a comprarlo al loro prezzo, oggi tutti noi siamo stati resi dei tossici, dipendenti da un cellulare, dall’ultima app, dal tweet, dallo stato su fb, dalla tariffa “scontata estiva” che poi si scopre essere più costosa di quella normale.

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Il risultato è quello che vediamo: oggi ognuno ha la sua piccola dose della droga che preferisce, per rifugiarsi in un suo mondo di sogni, così come facevano i clienti delle fumerie di oppio della fine del secolo scorso. La partita, il social, il grande fratello, il culo di una velina che tanto non potrà nemmeno mai vedere, e da cui comunque, anche incontrandola, non avrebbe la minima considerazione.
E la cosa più tragica è che ognuno di questi drogati, pur lamentandosi dei suoi spacciatori, non ha il minimo coraggio di rinunciare alla sua personale dose e di ribellarsi. Si è ammosciato, sotto il peso di tutta questa spazzatura, che a dirla tutta non ha mai desiderato veramente, ma che si è solo sentito imporre da fuori.
Ognuno di questi drogati non sa più vivere, ma si limita ad esistere, intuendo che ci potrebbe essere quel qualcosa di meglio, ma rimanendo comunque ancorato alle sue due cazzate, senza avere più il coraggio di rischiarsele. Ognuno di questi drogati si limita a produrre, consumare e sognare, sempre chiuso nel suo piccolo e solitario mondo di illusioni, quel suo irraggiungibile qualcosa, che ormai non ha nemmeno più un’idea chiara di cosa sia, perché non sa più volere o desiderare nulla, essendo dipendente da due cazzate e bloccato dalla paura di rischiarsele. Una paura strumentale, usata da chi invece sa rischiare e sa cosa vuole.

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Ad oggi, che ognuno di noi ha in tasca almeno uno smartphone con cui potrebbe veramente pilotare un modulo lunare (beh, forse col mio è meglio non provarci…), estremamente più potente e veloce del vecchio elaboratore di quella missione, non c’è stato un cane di nessuno, escluso un fotografo, che si sia ricordato di un anniversario storicamente così importante. Oggi, anziché avere in mano già buona parte del nostro sistema solare, come avremmo potuto e dovuto fare, ci siamo fermati, buttando nel cesso tutti gli sforzi fatti 50 anni fa da quegli ingegneri ed astronauti, che se fossero ancora vivi non oso nemmeno pensare a quanti insulti ci manderebbero. Mi sono chiesto il motivo: la risposta è stata tristemente realistica.
Perché ci siamo ammosciati.

Kurtz Rommel