A TEATRO CON FILIPPO MAMMI’: “ORA PRO NOBIS”

Un’umanità derelitta, un protagonista scheletrito che si muove all’interno di una scenografia altrettanto scarna; insieme vanno a comporre una visione su cui adombrano i fantasmi della follia. Tutto questo è OraPronobis, un incisivo monologo ad atto unico, scritto e diretto dal regista e psicologo Rino Marino e ottimamente interpretato, con una vera piega dolorosa, dall’attore Fabrizio Ferracane, uno dei migliori esponenti del teatro siciliano, andato in scena sabato scorso al Politeama Siracusa di Reggio Calabria.

Marino, come in altre sue opere, riesce a dare allo spettatore un equilibrio tra il teatro astratto di Franco Scaldati (a sua volta ispirato al teatro di strada siciliano) ed una profonda conoscenza della psiche umana, della sua lucidità e delle vertigini che possono condurre a perdere il senso della realtà; la storia stessa lascia il dubbio se tutto sia accaduto realmente o se sia stato un sogno o, addirittura, il delirante monologo di un pazzo che mescola ricordi struggenti, vecchi rancori e rabbia distruttiva.
Una trama non c’è: un uomo, spoglio e vestito di stracci, è dentro un’ipotetica stanza del potere, davanti a lui ci sono solo una croce ed un manichino, con tanto di mitra, rappresentante forse un monsignore (l’uomo lo chiama, di volta in volta, “eccellenza” o “vossia”) o, forse, il Potere tout court. Il protagonista di Ferracane si lancia in un monologo scandito da un dialetto siciliano arcaico, dirompente ed angosciante secondo la tradizione della tragedia greca, accompagnandolo con una gestualità che, da sola, racchiude la sostanza di tutta la trama. Non sappiamo che cosa abbia fatto il protagonista o perché si trovi davanti ad un’autorità ecclesiastica, non è neppure detto che l’incontro sia reale; reale è, semmai, la disperazione dell’uomo, figlio di una progenie dolente e triste, che ha evidentemente subìto solo ingiustizie dalla vita, forse anche dalla Chiesa che dovrebbe aiutare gli emarginati, e che esprime il suo dolore nel raccoglimento della stanza di un vescovo.
Un dolore che è anche un grido di vendetta contro il cielo: ne sono una prova le cupe giaculatorie che si odono appena l’uomo tenta un gesto di violenza e ribellione, e che iniziano come un semplice rosario per poi assumere la crudeltà di antichi proverbi siciliani, fino a sfociare nel blasfemo (una trovata davvero coraggiosa). In questo dramma è la parola la vera protagonista, che riacquista tutta la sua forza di suggestione, restituendo spazio all’immaginazione ed alla ricostruzione logica degli eventi che hanno portato il protagonista alla pazzia; l’uomo stesso si affida ad essa ed all’azione dei gesti, non tanto perché lo spettatore lo guardi agire, ma perché lo ascolti.


Nella prima parte, l’uomo parla, interloquisce in un dialogo immaginario con il manichino, come se tutto lo spettacolo fosse un esperimento che aiuti il protagonista a far riaffiorare i traumi lesivi del suo equilibrio nervoso; egli è arrabbiato con il Potere, con l’umanità e persino con Dio, è ferocemente combattuto tra la voglia di ribellione (il dito puntato, lo schernire il monsignore) e l’oblio dell’apatia (il continuo chiedere perdono, i silenzi, il prostrarsi dinanzi al pubblico). La voce rievoca una società che forse spinge i suoi componenti alla follia, le contraddizioni della Chiesa, che predica e predica ma pensa solo ad arricchirsi, ed un terrore fisico verso il nulla, quelle tenebre che incombono sulla scena accompagnate da cupi suoni.
Nella seconda parte, c’è la “realtà”: il protagonista ha solamente “sognato” la sua blanda ribellione e finalmente assistiamo al suo racconto di una vita marginale, vissuta tra gli stenti all’ombra di una famiglia forse opprimente e votata a glorificare un fratello sacerdote, considerato il santo di casa; nel rabbioso monologo, il protagonista ci svela la sua angoscia, il suo considerarsi “niente”, sfodera quelle frustrazioni che possono annidarsi nella personalità di ognuno di noi, finendo per diventare lo specchio che rimanda un’immagine deformata dello spettatore stesso, suggerendo che forse stiamo diventando gradualmente tutti pazzi, in un contesto socio culturale che fomenta le visioni distorte della realtà, ma ha il terrore dei folli (e quindi della verità).

Filippo Mammì