DISCORSI ALLA NAZIONE: UNO SPETTACOLO GRAFFIANTE, CHE PUNGE COME UNO SPILLO

In occasione dell’anniversario della Liberazione d’Italia, torna al Rossini di Pesaro, Ascanio Celestini con Discorsi alla Nazione, di cui é anche regista (produzione Fabbrica).

Lo spettacolo è ancora “uno studio, una tappa intermedia, una fase di ricerca in previsione dello spettacolo vero e proprio”, ci tiene a sottolineare l’autore, anche se il monologo della durata di un’ora e mezza è di per sé una requisitoria feroce, divertente e disperante allo stesso tempo: un racconto armato di parole talmente esplosive da lasciare gli spettatori sgomenti.

Come è consuetudine, si apre quasi in sordina, come se Celestini chiedesse il permesso, si scusasse di stare sul palco.

“Io sono di sinistra” -sottolinea molte volte- però…”. Quel “però” svela progressivamente contraddizioni e fallimenti della sinistra italiana: in un crescendo di verosimili paradossi, l’uomo di sinistra si svela sempre più razzista, maschilista, gretto, cattolico benpensante, borghesuccio: talvolta persino più a destra della destra.

 

Il paradosso diventa allucinante, ma comprensibile e  condivisibile: Celestini snocciola le piccinerie di un pensiero diffuso, genericamente oppositivo ma sostanzialmente reazionario che è il cuore di un’Italia storicamente ed eternamente di destra dove sono sfilate varie dittature: Savoia, fascisti, democristiani, berlusconiani…

Lo spettacolo prosegue con brevi monologhi, fotografie di una umanità marginale, chiusa in un fantomatico condominio: piccoli ritratti di gente, ognuno con la sua storia, tessere di un mosaico di un futuro forse non troppo lontano. Celestini immagina una Nazione abbandonata alla guerra civile, in cui piove sempre (come a Macondo, l’immaginario paese immerso nella foresta colombiana, dove si ambienta la saga dei Buendìa in Cien aňos de soledad di G. Garcia Marquez): un paese nello sfacelo senza  più reazione o sdegno, attraversato soltanto da istinti di sopravvivenza e rassegnazione.

Le figure rappresentate sono paradossali: l’uomo che cerca  il silenzio e che -per un imprevisto cambio di programma- è costretto a parlare con chi incontra e arriva a uccidere l’uomo che involontariamente aveva causato il cambiamento; il cecchino potenziale, qualcuno che spara sui passanti dal buio della sua finestra; quello che sa trovare il suo posto al mondo soltanto grazie al fatto di avere una pistola in tasca ed infine il proprietario snob dell’attico.

I monologhi sono intervallati da una conversazione telefonica (fuori campo) di una condomina con il portiere dello stabile in cui vive: è bloccata in casa perché un cadavere ostruisce il portone e l’altro le spiega con calma la situazione, mentre entrambi sono in attesa dell’apparizione del nuovo dittatore e del suo fantomatico discorso alla Nazione che non si fa attendere.

Look anni Settanta, il dittatore parla -a nome delle classi dominanti che hanno sempre gestito il potere – alla “sinistra”: ai lavoratori, ai contadini, ai rivoltosi, ai proletari, spiegando loro quanto nulla sia cambiato, nonostante le belle parole create proprio da loro, parole come “lotta di classe”, ad esempio, completamente disattese proprio da chi le ha inventate.

E immagina addirittura un “governo Gramsci” in cui il politico sardo (fatto finalmente uscire di prigione per permettergli di morire a casa) dà incarichi a persone certo diverse da quelle attuali.

Moltiplicando il paradosso, Celestini fa ridere proprio svelando i meccanismi della storia, raccontandola dal punto di vista di chi, nonostante tutto, è ancora e sarà sempre in auge. Il tiranno, osannato, sarà nuovo ma uguale a chi l’ha preceduto: l’unica differenza è che i predecessori sono morti, mentre lui, vivo, ne continua il potere.

“L’unica possibilità di sopravvivere per un pesce piccolo è diventare parassita del pesce grande, mangiare gli avanzi del suo pasto e in cambio spidocchiargli la pinna”.

Non c’è speranza di cambiare veramente le cose in questa Nazione, sembra dire Celestini e lo dice con coraggio e determinazione, anche se con pungente ironia.

Nel suo rigore morale, intellettuale ed artistico, si assume con coscienza il dovere di un teatro politico, presente e vivo. Anche il lazzo comico, la battuta, l’ironia, sono sempre aguzzi come spilli, invisibili ma dolorosi: lì per lì magari non te ne accorgi, ma fanno sanguinare.

Applaudito lungamente dal pubblico, lo spettacolo (rappresentato in tutta la penisola) é in scena  al  Palladium di Roma fino al 19 maggio 2013 allorché proseguirà (dal 21 al 26) presso il Piccolo Teatro Grassi di Milano.

E’ stato inserito nel cartellone di  di TeatrOltre, la rassegna multidisciplinare di teatro, musica e danza promossa dai Comuni di Pesaro, Urbino,Fano, San Costanzo, San Lorenzo in Campo, Urbania e dall’AMAT,  realizzata con il contributo della Regione Marche e del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo.

Paola Cecchini