Dogman: il canaro di paglia di Matteo Garrone

L’ambientazione è una degradata e sporca periferia che, sospesa tra la metropoli e la natura selvaggia, richiama alla memoria, in un certo senso, la “Ostia tossicodipendente” di Non essere cattivo di Claudio Caligari.

Del resto, non sono sniffate di cocaina a mancare nel quotidiano vivere del Marcello interpretato da Marcello Fonte, mite e piccolo individuo che gestisce un modesto salone di toelettatura per cani, e dell’ex pugile Simoncino, vero e proprio terrore del quartiere cui concede anima e corpo un irriconoscibile Edoardo Pesce che quasi ricorda il Robert De Niro di Toro scatenato.

Due eccellenti protagonisti sul cui ambiguo rapporto che vede il primo – spesso impegnato anche a trascorrere del tempo con la figlioletta Alida alias Alida Baldari Calabria – pronto ad essere sottomesso dal secondo si costruisce progressivamente Dogman, messo in piedi da Matteo Garrone prendendo chiaramente e molto liberamente ispirazione dal tragico fatto di cronaca nera romana degli anni Ottanta legato al cosiddetto “Canaro della Magliana”.

Molto liberamente in quanto, appunto, la oltre ora e quaranta di visione si svolge ai giorni nostri, tirando in ballo, tra gli altri, l’Adamo Dionisi di Suburra nei panni del Franco titolare di un Compro oro, per arricchire lo stuolo di indispensabili facce da romanzo criminale in fotogrammi il cui interesse, però, non sembra essere il sensazionalismo da ricercare nell’efferatezza.

Perché coloro che sono a conoscenza dei fatti di cui sopra sanno benissimo che la vicenda si concluse con una atroce vendetta a suon di violentissime torture di cui, però, l’autore di Gomorra e Il racconto dei racconti sembra fare tranquillamente a meno, ricorrendo ad un’uccisione decisamente più veloce e meno sofferta.

Una scelta che rischia probabilmente di lasciare con l’amaro in bocca gli spettatori che si aspettano qualcosa di visivamente shockante e facilmente classificabile all’interno della cinematografia di genere da torture porn, ma che rivela l’intenzione dell’insieme di rientrare in tutt’altra tipologia di elaborato da schermo.

Infatti, sebbene in questo modo la storia non fatichi a risultare banale dopo la sua lenta costruzione di tensione sulla falsariga di Cane di paglia di Sam Peckinpah, ciò che maggiormente colpisce e che rende il tutto riuscito e al di sopra della media non è soltanto il sufficientemente coinvolgente crescendo di situazioni più o meno grottesche (citiamo soltanto la sequenza in cui Simoncino si ritrova ferito a casa dalla madre Nunzia Schiano), ma la capacità di far apparire l’operazione in qualità di parabola sull’emarginazione sociale quale conseguenza delle scelte effettuate per sopravvivere… con tanto di amici a quattro zampe che si rendono affascinante esaltazione metaforica della solitudine.

 

 

Francesco Lomuscio