Il codice del babbuino: cani (di paglia) arrabbiati

La miccia che accende la circa ora e venti di visione è il ritrovamento di una ragazza stuprata, in quanto è dalle reazioni della gente ad un vero caso di violenza sessuale avvenuto anni fa nel comune di Guidonia Montecelio che prende le mosse Il codice del babbuino, terzo lungometraggio a firma di Davide Alfonsi e Denis Malagnino, colonne storiche del collettivo Amanda Flor, poi costituitosi nell’associazione culturale di promozione sociale Donkey’s Movies.

Quindi, dopo il precariato de La rieducazione e lo spaccio di droga alla base di Ad ogni costo, sono intolleranza, rabbia e vendetta a fare qui da tematiche di fondo, con il giovane Tiberio alias Tiberio Suma che, fidanzato della donna ed evidente giovane leva della malavita romana ancora confuso su cosa sia giusto e cosa sbagliato nelle azioni quotidiane, si getta immediatamente alla ricerca dei responsabili – oltretutto convinto che si tratti di rom – affiancato dall’amico Denis, incarnato dallo stesso Malagnino e che tenta in ogni modo di farlo desistere dai suoi pericolosi progetti.

Un Denis che, padre di famiglia disoccupato che ha deciso di cominciare a vendere hascisc, non può fare a meno di rappresentare la disperazione, tanto più che fornito chiaramente di umanità e che si rivela fortemente indebitato con il Tibetano, spietato boss cui concede anima e corpo Stefano Miconi Proietti.

Un trittico di protagonisti eccellentemente interpretati e posti al servizio di un’operazione on the road ambientata quasi del tutto all’interno di un’automobile, in maniera analoga a quanto avvenuto nel mitico Cani arrabbiati di Mario Bava, ma che, al di là delle premesse, non punta in maniera banale alla liberatoria rivalsa tipica del rape & revenge proto-Cane di paglia, pur sfociando nella violenza.

Una violenza, comunque, soltanto suggerita e non esplicitamente mostrata, in quanto è tutt’altro che quella tipologia di sensazionalismo da intrattenimento splatter che intendono abbracciare i due autori, anche responsabili di una sceneggiatura che, altamente coinvolgente e fornita perfino di un esilarante dialogo cinefilo riguardante lo Scarface di Brian De Palma, riesce nella non facile impresa di costruire un tanto intelligente quanto coinvolgente e mai scontato percorso di redenzione, dal tramonto all’alba.

Un percorso che risente di sicuro della filmografia del compianto Claudio Caligari, a differenza della quale viene messo in piedi con totale assenza di mezzi che, paradossalmente, anziché di difetto finisce soltanto per guadagnarsi la qualifica di grandissimo pregio… perché, tra l’altro, bastano quelle luci giallo ocra fornite dalla illuminazione stradale della periferia romana a conferire il forte e veritiero senso di Neorealismo d’inizio XXI secolo, spesso assente nelle ordinarie produzioni nostrane ad alto budget che vorrebbero rappresentarlo.

 

Francesco Lomuscio