L’atelier: i giovani francesi dopo il Bataclan

La Ciotat, nel Sud della Francia. Antoine partecipa ad un workshop estivo con  un gruppo di giovani selezionati per lavorare alla scrittura di un soggetto di un romanzo, un possibile thriller con l’assistenza di Olivia, un’importante scrittrice. Il processo creativo vuole fare riferimento anche al passato industriale della città, ma, presto, questo si rivela un argomento distante dagli interessi di Antoine, il quale, in breve tempo, manifesta le proprie tensioni non nascondendo, poi, alcuni suoi atteggiamenti razzisti, mettendo a fuoco i problemi di una Francia dopo l’effetto Bataclan.

La sceneggiatura del film risale ad una vecchia idea del regista Laurent Cantet, quando aveva lavorato ad un workshop di scrittura  e che vedeva coinvolta una scrittrice inglese con un gruppo di giovani de La Ciotat, i quali avevano come unico vincolo quello di ambientare l’azione nella città portuale.

Partendo da questa suggestione, Cantet attualizza ai giorni nostri la condizione giovanile dei francesi  in un contesto diverso dal suo lavoro La classe. Qui, il gruppo riunito intorno ad Olivia (Marina Foïs) sceglie di misurarsi con la scrittura e la storia di una città che, nella seconda metà degli anni Settanta, era diventata un cantiere navale di prim’ordine, per poi, a causa della crisi, essere diventata un banale sito di manutenzione di yacht. Con tutte le conseguenze sociali della perdita di lavoro, per fare un paragone come la Olivetti di Ivrea, ormai scomparsa a livello industriale.

Questa scelta permette al cineasta di affrontare attraverso il suo giovane protagonista Antoine (Matthieu Lucci) tanti problemi dei giovani francesi, società in teoria multietnica, ma che, in realtà, vive ancora dei fantasmi del colonialismo e con le stragi compiute da giovani musulmani francesi al Bataclan.

Stragi che hanno riacceso la fiamma della Francia ai Francesi, in verità a quei francesi di razza “bianca” (e non) di chiare origini algerine o di altre colonie d’oltralpe africane.

Lo scontro del giovane con questa identità culturale o eredità è la chiave di lettura del film, anche se, onor del vero, per il nostro pubblico è tutt’altro che digeribile. Ci troviamo di fronte ad un ottimo film diretto con professionalità, ma destinato evidentemente al pubblico transalpino e atto ad incuriosire ed approfondire la storia della cittadina de La Ciotat o i risvolti dell’effetto dei numerosi attacchi terroristici.

Tuttavia, resta il pensiero che, magari, un film sui problemi di Taranto e l’Ilva siano poco esportabili come argomento per la Francia, e, in questo caso, vale la stessa considerazione. Consigliato solo a chi ama il regista e conosce bene la Francia, con tutte le sue contraddizioni.

 

 

Roberto Leofrigio