Loro 2: Toni da satira berlusconiana

Un Toni Servillo nei panni di Silvio Berlusconi conversa con un Toni Servillo in quelli di Ennio Doris, fondatore di Mediolanum, testimoniando, in un certo senso, uno sdoppiamento che vuole il secondo alter ego del primo.

Sarà vero che un venditore è un uomo solo, forse il più solo al mondo, perché parla e non ascolta mai?

Sicuramente, un venditore è un persuasore e non può permettersi di diventare il più grande d’Italia nella sua categoria se non conosce i dolori e i desideri dei clienti.

Mentre viene osservato che l’altruismo è il miglior modo di essere egoisti, è ciò che si evince non solo da quel primissimo dialogo di apertura, opportunamente fornito di punte di umorismo, ma anche dalla ancor più esilarante telefonata effettuata dallo stesso ex presidente del Consiglio improvvisandosi venditore immobiliare sotto falso nome, nel corso di una sequenza che, già da sola, sintetizza quello che è il suo rapporto con gli italiani.

Un ex presidente del Consiglio che, dopo la sua effettiva entrata in scena nell’ultima parte di Loro 1, domina totalmente i cento minuti di visione alla base di Loro 2, in cui maggiore spazio trovano personaggi già presenti nel tassello precedente, dal Fabrizio Sala proto-Lele Mora di Roberto De Francesco alla aspirante attrice Stella di Alice Pagani.

La Stella che, tra l’altro, provvede ad esporre il patetismo di determinati giovani e di determinati vecchi nel corso di un confronto diretto in camera da letto con il “tiratissimo” protagonista, che non manca neppure di affermare che sono l’amicizia e lo stesso chirurgo plastico a legarlo alla Cupa Caiafa incarnata da Anna Bonaiuto.

Perché, man mano che viene affermato attraverso una barzelletta che il Cristianesimo predica la povertà e il Comunismo la realizza, è in maniera evidente la forte carica di ironia a rappresentare il punto di forza di quella che si presenta in qualità di autentica satira sullo stivale tricolore d’inizio terzo millennio, magnificamente sostenuta da una performance servilliana – non priva di più o meno accentuati echi del fu Guido Nicheli – nel ruolo di colui che, nelle parole della ormai delusa moglie Veronica Lario, non si rivela mai e non sembra essere altro che una lunghissima messa in scena fatta persona.

Una Veronica Lario cui concede altrettanto magnificamente anima e corpo (nel vero senso della parola) Elena Sofia Ricci, capace di riscattarsi soprattutto nel lungo e memorabile battibecco mirato a chiudere la storia coniugale; ponendo ancor più in evidenza i brillanti dialoghi di una sceneggiatura che non manca neppure di tirare in ballo il giro delle improvvisate attricette imposte (definite dallo stesso Silvio “Strappone che non sanno recitare”) ad un attivissimo produttore “romanaccio” dalle fattezze di Max Tortora.

Un momento che, con sprazzi di parodia rappresentati anche dalla fantomatica fiction tv Congo Diana, non dimentica, però, di ribadire come pure a sinistra le raccomandazioni vengano attuate nella medesima maniera, bilanciando l’aspetto critico di un’operazione inevitabilmente approdante al terremoto che ha distrutto L’Aquila.

Un fatto di cronaca che, in fotogrammi, finisce per diventare metafora di diversi aspetti, dal crollo della società italiana alla conclusione dell’epoca berlusconiana; come l’immagine della statua del Cristo senza Madonna recuperata dalle macerie si fa affascinante simbologia della pietà tramite cui gli abitanti del Bel paese, in un modo o nell’altro, si ritrovano sempre per alimentare e sostenere chiunque riesca a farsi venerare come un dio, con tutti i suoi pregi e difetti.

E se ci troviamo dinanzi ad una delle maggiormente riuscite fatiche del cineasta napoletano Paolo Sorrentino e, a differenza del pasticciato primo capitolo, qui il coinvolgimento appare tutt’altro che assente, lo si deve in particolar modo, con ogni probabilità, alla chiara scelta di mettere in piedi un elaborato da schermo più concretamente legato alla realtà e meno propenso ad abbandonarsi a bizzarre divagazioni oniriche di taglio felliniano (in questo caso intravedibili, al massimo, nella divertente situazione sulle note di Meno male che Silvio c’è).

 

 

Francesco Lomuscio