Recensione: I love… Marco Ferreri, l’omaggio necessario di Pierfrancesco Campanella

L’harem (1967), La donna scimmia (1964), Dillinger è morto (1969), La cagna (1972), La grande abbuffata (1973), Ciao maschio (1978), Il futuro è donna (1984): si potrebbero citare tutti i film di Marco Ferreri. Ognuno, a suo modo, è stato significativo nella misura in cui ha riformato indelebilmente l’immaginario cinematografico, parlando un linguaggio diverso, non convenzionale, anti civile, grottesco, spiazzante. La critica alla società dei consumi e alla degenerazione antropologica (più volte denunciata anche da Pier Paolo Pasolini) non era di per sé sufficiente a decretare la grandezza di un autore.

È stata la ricerca forsennata di formule visive inedite e di una dialettica evanescente (che non riproduceva, cioè, i rapporti di produzione imperanti, ma li contestava fortemente) a tratteggiare la statura di un artista che, quantunque spesso celebrato, è rimasto sempre un po’ a margine, non definitivamente investito del valore riconosciuto ad altri grandi cineasti. Forse perché Ferreri aveva perso completamente la fiducia nella possibilità di un ravvedimento da parte di un mondo ormai sempre più alla deriva, stordito dalle immagini dello spettacolo ‘diffuso’ e ‘concentrato’ del capitale (per dirla con Guy Debord), non più in grado di mantenere un minimo di lucidità.

Il regista milanese, poi, aveva traslato la dialettica dello scontro in un altro spazio, dove i termini della contesa (e qui scomodiamo Eraclito) non erano più proletariato e borghesia ma maschio e femmina: sempre di rapporti di potere, comunque, si trattava. Sul piano iconografico, però, questo mutamento dei fattori comportava la possibilità si sviluppare un immaginario ricco, pregnante, significante. Una metaforizzazione che produceva un surplus di senso che circolava all’interno di molti dei suoi film: un fuori campo assoluto che riverberava su storie surreali, talora criptiche (per qualcuno), ma dotate di una potenza simbolica capace di penetrate lo spettatore da parte a parte.

L’agile premessa era indispensabile per introdurre l’interessante film di Pierfrancesco Campanella, I love… Marco Ferreri, che tenta, tramite il divertente escamotage dell’investigazione, di ripercorrere la carriera del regista, senza cadere – e per chi scrive questo è il dato più interessante – nella retorica della celebrazione, o, peggio ancora, della santificazione. Il cinema parla attraverso il cinema; circostanza, questa, che con costituisce una tautologia, piuttosto risponde alla necessità di una rigorosità filologica atta a ‘far parlare la cosa per mezzo della cosa stessa’, a causa di un’inderogabile esigenza di verità.

Se, talvolta, le incursioni del ricercatore appaiono un po’ stucchevoli (viene in mente in questo senso la critica che Frederick Wiseman fa spesso, scherzando, a Michael Moore: “Michael, spostati, che voglio vedere il film”), assai apprezzabili, invece, risultano le numerose incursioni della ‘cattiva coscienza’ – una sorta di denigratore incallito, pronto a desacralizzare, boicottare, sminuire qualunque cosa – che costituiscono un prezioso contro canto, utile, come si notava sopra, a evitare di cadere nei toni della più prevedibile glorificazione. E poi, naturalmente, sono stati chiamati a testimoniare coloro che collaborarono con Ferreri, in particolare Michele Placido e Piera Degli Esposti (anch’essi assai sobri e non inclini all’idolatria).

Nel complesso, dunque, l’operazione di Pierfrancesco Campanella si può considerare senz’altro riuscita, utile, necessaria. Piace anche l’ammissione del fallimento, l’aver confessato, per onestà, l’impossibilità di riuscire davvero a raggiungere l’obiettivo della ricostruzione (anche parziale) della figura di un cineasta dalle mille sfaccettature come Ferreri.

Un ultimo sentito e personale ringraziamento a Campanella per una spiritosa parafrasi che scrive ha trovato eccellente: “La mamma dei cretini è sempre on line”.

Luca Biscontini