Profondo: dagli abissi del low budget italiano

Il passaggio con l’insolito film d’avventura Profondo – disponibile su Prime Video – dal genere horror all’austera ed evocativa suspense, aliena ai coefficienti spettacolari di sicuro effetto, rappresenta una sfida assai ardua.

L’avvertito Giuliano Giacomelli al timone di regìa l’affronta sulla scorta dell’egemonia dei semitoni rivelatori. Preferiti all’accattivante adrenalina degli action-movie che mandano in visibilio l’ingenua immaginazione delle masse. La scelta, dettata dal desiderio di riuscire ad amalgamare all’ancestrale sentimento d’insicurezza dei thriller fuori del comune lo stupore poetico delle opere di pensiero, è degna d’encomio.

L’ostinata ricerca dell’alterità prende le opportune distanze dalla scontatezza dei racconti consolanti ed evasivi e accresce la suggestione delle sfide ai limiti del possibile. Senza cadere nell’infecondo déjà vu. I rimandi ad All Is Lost – Tutto è perduto di J. C. Chandor e a Lo squalo di Steven Spielberg sono infatti assorbiti dallo slancio fragrante dell’ispirazione personale. Agli spunti documentaristici dell’incipit, con le testimonianze dei vari pescatori dell’Adriatico in merito al leggendario mostro marino denominato Diavolo Rosso, si vanno ad aggiungere i tòpoi dell’erudito lavoro di sottrazione. Costretto dal budget ridotto a fare di necessita virtù, Giacomelli tiene legati alla poltrona gli spettatori attraverso l’analisi degli stati d’animo. L’assoluta bellezza del silenzio congiunta al realismo fenomenico impreziosisce l’esperienza visiva. Creata cum grano salis dalla capacità di scrivere con la luce. Mentre nell’aria preme l’algida punta di spina della malinconia, dipinta pure sul volto neolitico del disilluso fotoreporter Leonardo, deciso comunque a invertire l’infausta rotta dell’arrendevolezza, l’esplorazione sociale ed etica dell’autore, povero di mezzi ma ricco d’estro, coglie nel segno.

Giacché garantisce alla cura minimalista dei dettagli un coinvolgente alone di mistero. L’ottimo contributo, ancorché in filigrana, dell’accorta musica extradiegetica scongiura il tangibile rischio di pagare dazio all’estremismo dell’antiretorica. L’uso degli intensi primi piani, in grado di catturare le pregnanti sfumature del loser autoctono, cementa la forza significante delle reazioni mimiche dinanzi all’incedere dello sconforto. La maschera del cocciuto protagonista, sull’esempio dell’ingegnoso John Cassavetes, acquista il peso specifico della location. Scandagliata lungo i porti, la spiaggia, la riva, gli interni disadorni. A bordo della vetusta barca il tran tran giornaliero cede spazio talvolta al cortocircuito onirico di una sequenza subacquea che inchioda l’attenzione. L’insolito dinamismo dei movimenti di macchina al chiuso trascende i limiti del cinema da camera. Anche se alcune figure di fianco, soprattutto la ragazza-madre che tenta nella terraferma di sconfiggere gli incubi di Leonardo per poi infondergli la fiducia necessaria ad abbrancare di nuovo il sogno in mare, tradiscono ovvii schemi di stampo teatrale.

A compensarli provvede, in alternativa altresì all’ormai arcinoto spettacolo di spaventi e meraviglie, l’aura contemplativa. Non si tratta, a ben guardare, di risolvere un puzzle. L’ennesimo rompicapo che traligna l’evidente vena elegiaca in noia di piombo. Il margine d’enigma connesso all’apparente impenetrabilità alla gioia del cinquantenne in lotta con l’esistenza spinge, piuttosto, il pubblico ad addentrarsi palmo a palmo in una storia di riscatto morale. Il processo d’identificazione, dapprincipio subordinato all’icasticità dei valori pittorici, affiora quindi con risolutezza. L’ordine naturale delle cose, la furia degli elementi, il lampo improvviso di un fulmine, l’atteso riverbero emanato dalla torcia, insieme alla carezzevole voice over, scevra una tantum dai deleteri timbri programmatici, trascendono la semplice perizia della messinscena: l’originale potenza di caratterizzazione raggiunta da Profondo devia dalla linea letteraria del Moby Dick di Hermann Melville e ricompone l’animo contorto dell’(anti)eroe di turno. Gli scatti fotografici fioccano al buio, l’invisibile prevale sul visibile, lo spirito manda a spasso la materia, Leonardo, impersonato dal bravissimo seppur misconosciuto Marco Marchese, chiude defintivamente il cerchio. Ed è un’emozione che, dando il benservito al perenne senso d’inquietudine, trasmette pace.

 

 

Massimiliano Serriello