Rabbia furiosa – Er canaro: roman(z)o criminale

Con le immagini delle strade di Roma e un’automobile che le attraversa, i titoli di testa non possono fare a meno di apparire in qualità di omaggio nei confronti di quelli che aprirono tanti poliziotteschi nostrani nell’epoca d’oro della celluloide di genere anni Settanta.

Del resto, pur essendosi consumato nel decennio successivo, è proprio alla tipologia di criminalità cui si ispiravano quei film con protagonisti i vari Maurizio Merli e Tomas Milian che appartenne l’episodio di cronaca del cosiddetto “canaro della Magliana”, dal quale, come fatto anche da Matteo Garrone per mettere in piedi il proprio Dogman, il mago degli effetti speciali Sergio Stivaletti prende molto liberamente le mosse – basandosi soprattutto sulle “leggende” popolari legate al caso – al fine di concretizzare Rabbia furiosa – Er canaro, suo terzo lungometraggio da regista, dopo MDC – Maschera di cera e I tre volti del terrore.

Lo stesso MDC – Maschera di cera da cui provengono, oltretutto, sia il veterano garanzia Gianni Franco, qui calato nel ruolo del commissario Ferri, che la Romina Mondello impegnata ad incarnare Anna, moglie del gestore di toletta per cani Fabio, reduce da otto mesi di carcere scontati al posto del suo amico ex pugile Claudio alias Virgilio Olivari, delinquente di piccolo calibro che ambisce a diventare il boss del quartiere periferico capitolino del Mandrione.

Infatti, a differenza della fatica garroniana, mirata in maniera evidente ad enfatizzare una vicenda di emarginazione e solitudine in ambito malavitoso, Rabbia furiosa – Er canaro prende avvio direttamente dal momento dell’uscita dalla prigione, favorendo la progressiva costruzione dell’ambiguo e quasi malato rapporto di amicizia che unisce i due; con il bipolare Claudio pronto ad esercitare occasionalmente la propria cattiveria su Fabio, il quale, magistralmente interpretato da un Riccardo De Filippis già Scrocchiazeppi nella serie televisiva Romanzo criminale, sopporta senza reagire, finché la pazienza regge.

Perché, accostabile in maniera inevitabile a quella alla base del super classico Cane di paglia di Sam Peckinpah, la storia, come è risaputo, riguarda una feroce vendetta che il citato autore de L’imbalsamatore e Gomorra ha deciso di inscenare senza ricorrere ad eccessi grafici di violenza; a differenza di Stivaletti, che, coadiuvato dai co-sceneggiatori Antonio Tentori e Antonio Lusci, una volta privilegiata la lunga e lenta descrizione del molto poco raccomandabile ambiente delinquenziale romano tirando in ballo anche Giovanni Lombardo Radice nei panni di un Signore della droga che muove i fili dello spaccio, non lascia affatto a desiderare per quanto riguarda dettagli splatter, regalando una truculentissima e visivamente accattivante – con tanto di fiumi di liquido rosso – fase conclusiva destinata a mettere a dura prova anche gli stomaci meno deboli (il mozzamento di una lingua è il momento più “leggero”, per intenderci).

Ma, sebbene questo aspetto da torture porn basti da solo a consentire alle quasi due ore di visione di essere collocate nella schiera dei cult della exploitation tricolore in fotogrammi a causa, soprattutto, del coraggio sfoderato nel mostrare nefandezze che soltanto il nostro cinema bis che fu e determinati maestri del gore tedesco e orientale hanno osato, Rabbia furiosa – Er canaro gode anche di altri pregi che contribuiscono a renderlo un (quasi) nostalgico esempio di produzione a basso costo italiana che farebbe di sicuro leccare i baffi a Quentin Tarantino e compagni di Settima arte.

In una solarissima capitale in perfetto contrasto con il cupo e moralmente discutibile universo raccontato, è sufficiente citare la crescente follia ulteriormente rafforzata dalle note de Il barbiere di Siviglia, che vanno ad incastonarsi nella magnifica colonna sonora di taglio bacaloviano a firma di Maurizio Abeni, capace di richiamare sia la vecchia romanità di borgata che determinate atmosfere western.

 

 

Francesco Lomuscio