Recensione: Black Panther, il supereroe della Marvel in salsa africana

Siamo in Africa, nel Wakanda. In un Paese all’avanguardia dove usi primordiali e coloratissimi costumi tribali si mescolano alla più evoluta delle tecnologie, alimentata da un metallo inesauribile che fornisce energia illimitata, il vibranio. In questo Paese, nascosto agli occhi del mondo, fa ritorno T’Challa alias Black Panther (Chadwick Boseman) per prendere (non senza strizzare l’occhio al Re Leone) il suo posto da re, dopo la morte del padre T’Chaka (John Kani). Così inizia Black Panther, il primo prodotto dei Marvel Studios totalmente all black, firmato da Ryan Coogler.

Divenuto re, come da tradizione, il supereroe non mancherà di affrontare i villain di turno che assumono i tratti del trafficante di vibranio Ulysses Klaw (Andy Serkis) e del rivale al trono Erik Killmonger (Michael B. Jordan). E nelle sue imprese ad aiutarlo ci sarà, insieme all’agente della Cia Everett K. Ross (Martin Freeman), una schiera di eroine con in testa Shuri (Letitia Wright), sorellina di Black Panther e mente geniale, seguita da Okoye (Danai Gurira) capo della guardia reale, da Nakia (Lupita Nyong’o), spy-girl/fidanzata di T’Challa, e Ramonda (Angela Bassett), madre del re che, con i loro tratti sfacciati, infondono al film una dimensione fortemente corale.

Più di tutto, però, nel susseguirsi di eventi e personaggi tre cose si fanno strada con forza: la preponderanza dello sfondo fisico e culturale africano, il tema politico e la dimensione intimistica. La storia di Black Panther è in Africa e sull’Africa. Ma non c’è nessuna idealizzazione. Il nero Wakanda è una terra dai tratti americani e occidentali, un paese che tende a isolarsi e a proteggere gelosamente le proprie ricchezze, senza condividerle con i popoli bisognosi. Uno stato colpito da guerre civili e di successione. Ed è in questa terra che T’Challa porta avanti una lotta non solo fisica, ma anche intimistica, morale e politica, che lo divide tra tutela di un popolo, il suo, e apertura al resto mondo, tra eredità paterna e bisogno di cambiamento, tra passato e presente, tra paura e dovere.

Il problema è che, nello scandagliare questa lotta interiore (mai del resto approfondita fino in fondo) o nell’insistere sul retrogusto politico e sociale, Black Panther si prende tanto, troppo sul serio e rinuncia a quella comicità leggera, propria di molti prodotti Marvel, che rende scorrevole e godibile la storia. E se, del resto, stiamo assistendo a un film di fantascienza e avventure, nemmeno a livello di intreccio il prodotto di Coogler riesce pienamente a convincere. Non c’è niente di complesso. Nulla nella storia riesce a sorprendere o ad andare oltre ciò che ci si aspetta. Né le scene rocambolesche – che pure, da tradizione, non mancano – o gli effetti speciali lasciano strabiliati.

E questo rende più di due ore di visione un po’ noiose e decisamente troppo lunghe, con la risultante di un film dove si ride e ci si diverte meno di quello che si aspetterebbe.

Valeria Gaetano