Autore dello sferzante apologo sulla dipendenza dall’eroina Trainspotting, vincitore dell’Oscar come miglior regista per The millionaire, in cui riesce ad appaiare all’arguzia di rileggere secondo i dettami dell’entertainment occidentale i mélo scanditi a passo di danza del cinema di Bollywood, Danny Boyle è sempre riuscito a congiungere il dinamismo dell’azione agli sviluppi imprevisti del giallo sui generis. Chiamati in causa anche nell’ormai lontano 2002 con l’horror/sci-fi 28 giorni dopo.

Appare perciò lapalissiano che, a parte l’indubbia efficacia iconografica ed evocativa della Londra deserta dinanzi ai raggi di sole dell’alba in seguito alla diffusione dell’agghiacciante epidemia che tramuta gli esseri umani in orridi insetti predoni, Danny Boyle tragga partito con maggior profitto, anche sotto l’aspetto dell’esplorazione analitica dei temi trattati, concernenti sempre la violenza sulla base dell’opportuna antropologia relazionale, dalla capacità di tenere gli spettatori col fiato sospeso che dall’azzardata interazione tra fascino irrazionale ed evasione fantastica connessa al genere horror/sci-fi.

Ora che con 28 anni dopo riprende il discorso lasciato in sospeso, in merito il salvataggio in extremis dei sopravvissuti sfuggiti all’atroce virus, ripreso dal collega spagnolo Juan Carlos Fresnadillo in 28 settimane dopo senza aggiungere nulla di nuovo, tranne sconfessare la precedente tecnica di ripresa perlomeno curiosa rispetto ai vetusti stilemi adottati dalla maggior parte degli zombie movie, Danny Boyle riuscirà a guadagnare ulteriori consensi, spiazzando persino gli spettatori più avvertiti sulla personificazione nel buio della sala del Rischio e della Minaccia, o mostrerà definitivamente la corda in un ambito alieno all’indagine delle dinamiche intrapsichiche degli atti violenti uniti al gioco geometrico dell’intrigo? L’incipit getta subito le basi per conciliare i tratti distintivi del romanzo di formazione d’ascendenza letteraria, adattato alla scrittura per immagini della fabbrica dei sogni per mezzo soprattutto dell’abile montaggio alternato, con gli incubi a occhi aperti degli scenari da brividi. La comunità arcaica, scampata all’epidemia, lo sguardo rivolto al passato, il dodicenne Spike chiamato a seguire le orme dell’autocrate padre Jamie ligio alla propria discutibile morale venatoria, l’effigie dell’isola di Lindisfarne, le scene d’insieme, il riferimento in filigrana all’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, l’incombenza di affrontare nella terraferma le abominevoli creature affette dal virus della rabbia, disperso nell’ordine dapprincipio civile da un incauto laboratorio di armi biologiche, non devia la narrazione dai modi disinibiti dall’ovvietà delle modalità esplicative. Che sottraggono alla componente sci-fi il sentimento di meraviglia fiabesca in rapporto alla potenza dell’invisibile. Non basta l’apporto massiccio del match-cut visivo, che mette in relazione la reazione della comunità arcaica dinanzi alla prospettiva del Rischio e della Minaccia insieme ad alcuni scontati materiali d’archivio e all’episodio cruciale della Guerra dei Cent’anni nella battaglia di Agincourt, vinta dagli inglesi ai danni dei francesi, rievocata da Laurence Olivier in Enrico V, ad andare oltre l’espediente di conferire a una descrizione piuttosto sommaria, stringi stringi, l’ennesima congerie di fughe, inseguimenti, gesti eroici ed eventi, apparentemente, inattesi.

Danny Boyle, a dispetto dell’indubbia padronanza tanto della dimensione spaziale quanto di quella spazio-temporale, stenta pure a ricavare linfa dall’uso piuttosto parco d’una sorta di bullet time. Che dovrebbe permettere al dinamismo dell’azione d’usufruire della giustapposizione garantita dalla contemplazione, innescata dall’impressione fugace della macchina da presa di estraniarsi dalle avventure al cardiopalma, senza rallentare eccessivamente il ritmo della vicenda in questione né cedere troppo spazio a una focalizzazione prolissa sui dettagli da approfondire strada facendo. Invece l’assennatezza pratica dell’adagio latino “in medio stat virtus” viene scalzata dall’aleatoria ambizione di dare un colpo al cerchio della molla dell’azione e uno alla botte dell’aura contemplativa. Con il risultato, step by step, di far scattare il lato contorto dell’azione, anziché la tensione dapprincipio sottilmente allusiva, e tralignare la virtù della poesia di attrarre il brioso controcampo delle vicissitudini alle prese col cupio dissolvi nella noia di piombo dell’atmosfera pedissequamente d’attesa. Smarrito l’interesse di veder reagire i personaggi del genitore e del figlioletto alla Personificazione del Rischio e della Minaccia, per poi direzionare il sospiro di sollievo nei fumi dell’alcol in seno alla comunità arcaica di potenziali beoni, dell’ipotetico potenziale fascinatorio del film sui morti viventi, sull’epidemia e sulla lotta all’epidemia non resta così alcuna traccia degna d’encomio. Lo stesso vale per il previo clima di mistero. Svilito dai continui ammiccamenti allo strambo dottore impersonato con un vanesio piglio istrionico dal pur bravo Ralph Fiennes che diagnosticherà l’inguaribile tumore alla dolente seppur amorevole mamma di Spike. A distanza di qualche galassia dalla falsa confort-zone della comunità post-apocalittica. A quel punto la trama prende una piega scolastica. Al termine degli incontri in teoria imprevisti, specie col soldato moderno decapitato da un mostro dalla forza erculea, messo a tacere però dallo scaltro dottore, il ragazzino snuda l’anima progressista lasciatagli in eredità dalla madre prima di coniugare l’esistenza all’imperfetto, apprende l’importanza della ritualità connessa alla nascita di una bimba sana da una madre infetta, per merito della funzione protettiva dall’alacre placenta, nonché al momento dell’amaro trapasso, ed entra pertanto nell’età adulta.

La sequenza culminante dell’annunciato, se non telefonato, memento moris, a corto dell’epica inversione di rotta degli affreschi ora febbrili ora ascetici di Werner Herzog sulle suggestive ed esotiche ballate di sangue, veleggia nella superficie delle ovvie metafore imposte dalla schiavitù dei generi. Boyle, orfano della perizia stilistica ed espressiva esibita in Trainspotting delineando in chiave spigliata e al contempo meditabonda la scappatoia dalla dipendenza ravvisabile nell’egemonia dell’amor vitae sul cupio dissolvi, accompagna il solito rosario d’ammazzamenti cruenti, talvolta splatter, nell’acme programmatico, ed ergo scontato, del racconto di formazione. Col ragazzino divenuto uomo, o almeno ometto, soccorso nell’epilogo dai cattivi camuffati da buoni per destare l’interesse del pubblico dai gusti semplici sul sequel. Per cui non c’è davvero bisogno di perdere il sonno. L’enfasi di maniera si va perciò ad amalgamare alla pressoché totale penuria di guizzi registici. Una mancanza sopperita alla bell’e meglio dalla professionalità dell’intero cast, all’oscuro tuttavia della vera marcia in più dell’idonea psicotecnica recitativa che impreziosisce la psicopatologia legata all’orrore del dolore, e dal gusto degli effetti speciali. Troppo poco per attribuire alla decisione del ragazzino di 28 anni dopo d’andare avanti, nella scoperta bene o male dell’alterità, invece di guardare all’indietro, la liberazione poetica che trascende i limiti dei generi nell’ambito d’un’atmosfera soffocante. Boyle sceglie la strada diametralmente opposta dell’atmosfera liberatoria sconfessata dal vezzo di aggiungere poesia alla poesia. Regredendo nello sterile poeticismo. L’idea che il bene prevalga in zona Cesarini sul male necessitava del fulgido carattere d’ingegno creativo abituato ad anteporre lo slancio culminante dell’ispirazione reale all’utopia dell’applicazione 50 e 50 degli imperativi action e dei vani innesti contemplativi. Così scontati da mandare a carte quarantotto le previe incursioni nel clima di mistero dei gialli sulla violenza autenticamente sui generis.


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