438 days: due giornalisti svedesi contro il business del petrolio

Diretto dal regista svedese Jesper Ganslandt e presentato alla XIV Edizione della Festa del Cinema di Roma, 438 days (titolo originale 438 Dagar) racconta la storia vera di due suoi connazionali: il giornalista Martin Schibbye e il fotografo Johan Persson, i quali, nel 2011, hanno attraversato il confine tra Somalia ed Etiopia con l’obiettivo di fare un reportage sulle dinamiche del commercio del petrolio dove erano coinvolti la compagnia svedese Lundin Petroleum e il ministro degli esteri svedesi Carl Bildt, che prima di diventarlo aveva intrattenuto affari pochi chiari con il governo Etiope come dirigente della stessa.

Dopo essere entrati in modo illegale nell’Ogaden con i combattenti dell’OLF, i due vennero catturati dall’esercito Etiope durante uno scontro e, in seguito, processati e condannati a ben undici anni di prigione per terrorismo.

Il film racconta la vera storia di questi due individui che, grazie alla diplomazia silenziosa (ma inefficace) del governo svedese, in realtà lottarono per la giustizia e la libertà di stampa, portando anche a conoscenza delle inumane condizioni del carcere dove erano imprigionati e degli abusi del regime etiopico.

Splendidamente interpretato da Gustaf Skarsgård (molto noto al pubblico per essere il Floki della serie tv Vikings) e Matias Varela (Narcos, I Borgia), 438 days è un ottimo prodotto che nulla ha da invidiare a blasonate produzioni americane. Un lungometraggio che illumina un paese in guerra fino a poco tempo fa e che proprio recentemente ha visto assegnare il premio nobel per la pace al suo nuovo premier per aver finalmente messo fine al conflitto con la confinante Eritrea.

Una storia che ci spinge subito a ripensare alla tragica fine della nostra Ilaria Alpi e di Miriamo Hrovatin, sulla cui esecuzione cui permane il “mistero”, e che, dal punto di vista cinematografico, ricostruisce in dettaglio la vicenda dei due giornalisti svedesi; ma non solo con lo scopo di mostrarci la vicenda di persone che, alla fine, diventano grandi amiche, anche la forza del giornalismo di tutto il mondo, che ha cercato di aiutare la coppia di sfortunati, a dispetto del governo svedese.

Ed è all’interno di un terribile carcere senza celle che sembra una gigantesca baraccopoli circondata da filo spinato che i due scoprono la realtà del regime etiope, tra persone imprigionate per motivi politici, altre per sospetti, altre ancora condannate da anni per piccoli furti, fino a morire in questo posto privo di qualsiasi struttura sanitaria e caratterizzato da condizioni igieniche a dir poco spaventose.

La forza dell’insieme emerge dal rapporto tra Martin e Johan, che alla fine riescono nell’incredibile impresa di resistere per ben quattrocentotrentosso giorni allo stato di prigionia, testimoniando la maniera in cui hanno difeso la professione del giornalista che, a rischio della propria vita (e spesso perdendola), vuole portare la verità ai suoi lettori e al mondo.

A differenza del cinema italiano, dunque, nel quale non si pensa altro che a mostrare il disagio dei migranti, qui ne vengono mostra le cause, con un paese ricco di petrolio e dove tutti vivono in povertà. Una bella lezione di cinema e, allo stesso tempo, di vita, che ci viene consegnata grazie a Martin e Johan.

 

 

Roberto Leofrigio