7 Sconosciuti a El Royale: uno contro l’altro a cavallo tra due stati

Con un ricchissimo cast comprendente, tra gli altri, Jeff Bridges, Chris Hemsworth, Dakota Johnson e John Hamm, in 7 sconosciuti a El Royale abbiamo un hotel a cavallo tra la California e il Nevada. Un consierge timido e insicuro, dipendente dall’eroina. E poi, uno dopo l’altro, un arrogante agente segreto, un prete, una cantante blues e una nevrotica hippy. Fin dai primi minuti si respira tensione. Molta tensione. Una tensione che sta tanto a presagire l’imminente scoppio di una bomba. E la bomba, di fatto, non tarderà a scoppiare.

Con evidenti rimandi al cinema di Tarantino, di Hitchcock e – perché no? – anche di Sergio Leone, 7 Sconosciuti a El Royale – presentato come film d‘apertura alla tredicesima edizione della Festa del Cinema di Roma  all’interno della Selezione Ufficiale – è l’ultimo, atteso lavoro del giovane regista statunitense Drew Goddard, già apprezzato da pubblico e critica per l’horror Quella casa nel bosco (2012).

Seppur qualitativamente inferiore alla citata opera prima, questo suo secondo lungometraggio, di fatto, non ha deluso le aspettative.

La storia messa in scena, dunque, è molto più complessa e intricata di quanto si possa pensare. Pian piano, però, tutto torna, quasi a formare, come tanti pezzi di un puzzle, un unico quadro, senza lasciare alcun elemento in sospeso, ma curando ogni cosa sin nel minimo dettaglio.

Ad arricchire il tutto, una regia pulita, sapiente e che sta a giocare spesso con immagini simmetriche e riflessi: finti equilibri sul punto di disintegrarsi e false verità a cui ogni personaggio, di volta in volta, è portato a credere.

Ciò che salta agli occhi immediatamente dopo la visione di 7 Sconosciuti a El Royale è, in particolar modo, il fatto che lo stesso Goddard pare si sia divertito parecchio nel realizzarlo, giocando sapientemente con lo spettatore e le sue suggestioni e lavorando soprattutto di montaggio.

Un film, il suo, dai toni pulp che prende sì a esempio quanto già realizzato in passato, ma, allo stesso tempo, riesce ad assumere un’identità tutta propria, classificandosi più come omaggio ai cineasti sopra menzionati che come risultato di diverse suggestioni. E questo, di certo, non è poco.

 

 

Marina Pavido