A Chiara: si chiude la trilogia sui vincoli di sangue e di suolo

Nel chiudere con A Chiara la trilogia sui vincoli di sangue e di suolo che influenzano chiunque risieda a Gioia Tauro, dove si è stabilito in pianta stabile dopo aver vissuto sia a New York sia nella Città Eterna, l’ambizioso regista italo-americano Jonas Carpignano continua a trarre partito dal cult movie Il padrino di Francis Ford Coppola.

Sebbene attribuisca al caso le analogie – affiorate nel previo film A Ciambra per mezzo della correzione di fuoco intenta a veicolare lo sguardo degli spettatori sulla scelta compiuta dall’adolescente rom Pio in modo similare ad Al Pacino alias Michael Corleone riverito dal fido Clemenza mentre l’ombroso subalterno chiude la porta all’onesta consorte Kay – è difficile credere a una mera coincidenza.

L’ascendente esercitato da Il padrino, definito ai tempi dai critici statunitensi il Via col vento dei gangster movie, diviene ancor più evidente nell’incipit dell’ultima fatica. Con la sequenza del compleanno della diciottenne Giulia, sorella maggiore dell’energica Chiara, che richiama alla mente il matrimonio di Connie Corleone con cui prende le mosse Il padrino e la prima comunione del figlio di Michael che dà il via a Il padrino Parte II. Ovviamente si riscontrano diverse interpolazioni (Carpignano rispetto all’illustre collega vincitore dell’Oscar tende ad anteporre all’intensa ed evocativa tragedia shakespeariana riletta attraverso l’istanza rappresentativa del kolossal uno stile orientato all’impronta semi-documentaristica). Ciò nonostante dietro il proposito di favorire l’invisibilità dell’apparato tecnico emerge qualcosa d’alieno al timbro dell’antiretorica. In Mediterranea gli arguti punti di ripresa scandagliavano i volti degli emigranti provenienti da Burkina Faso, costretti ad accettare l’impiego della raccolta degli agrumi nella pianura alluvionale limitrofa, nel golfo di Gioia Tauro, sperando in un futuro migliore; nel successivo A Ciambra l’attenzione si era spostata all’omonimo sobborgo dove l’approdo all’età adulta comporta un passaggio al lato oscuro chiarito dal deep focus; ora è il turno dei nativi. Abituati a rivendicare, oltre alla forza della precedenza, del passato, dell’abitudine, anche i diritti, o presunti tali, recepiti a braccetto dei disvalori. Rinvenibili nei precetti malavitosi. Basti pensare all’incipit con la quindicenne Chiara intenta ad ammonire una coetanea, estranea al gruppetto, rea di sconfinamento nel muretto eletto a quartier generale dei pettegolezzi muliebri. Il pistolotto dell’opera d’impegno, che predica il cosmopolitismo al posto della fedeltà alla famiglia e al radicamento storico, giacché ritenuti compromessi con l’autarchia brigantesca, viene comunque compensato lì per lì dalla vigoria della messa in scena.

A Carpignano va riconosciuto il merito di appaiare dapprincipio l’aura contemplativa, baluardo del cinema di pensiero, insieme alla forza vitalistica dei festeggiamenti. Destinati a rivelarsi fuochi fatui, sulla falsariga anche de Il cacciatore di Michael Cimino, oltre che de Il padrino, anticipando le pieghe dei caratteri. Specie di Chiara. Scatenata nelle danze, nelle gare al karaoke, addestrata ad accompagnare le uscite giocose allo spirito fiero, senza abbassare gli occhi dinanzi alle prediche dei cugini maschilisti, sbigottita dinanzi all’incendio inopinato dell’auto paterna. Che introduce il ripiego nella suspense per tenere sui carboni ardenti persino gli spettatori allergici ai dispensi di fosforo. Ed ergo annoiati dall’austero lavoro di sottrazione. Restio ad aggiungere carne al fuoco. Anche perché il richiamo in filigrana a Il padrino, che agisce nell’inconscio del pubblico affezionato al climax della progenie decisa a lottare per amor filiale, temprando la personalità come Bilbo Baggins in Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato di Peter Jackson, bastava a evitare al tedio di mandare al tappeto la soglia dell’attenzione. Adesso non basta più? Evidentemente no. Ad attestarlo provvede l’associazione di senso cara a Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, adottata tanto da Coppola quanto dal nume tutelare Martin Scorsese, imperniata sullo stravolgimento espressionista. Dei suoni, stavolta, in occasione dell’attentato culminante. Il surplus del clima d’attesa e d’incertezza del thriller al pari dell’ampio margine d’enigma, tutto da svelare, del genere giallo dà il benservito al culto, celebrato nei festival incline a eleggere i registi ad autori assoluti ed ergo a demiurghi, certificando la necessità di solleticare il gusto di composite platee. Intendiamoci: Carpignano conosce bene i suoi polli e sa raccontare il territorio di Gioia Tauro. Cogliendone certe liturgie. Allo scopo di sopperire all’impasse delle lentezze descrittive con gli impliciti richiami cool.

Sin qui, nulla da eccepire: dare un colpo al cerchio della crudezza oggettiva, verificata de visu, e l’altro alla botte dell’appeal romanzesco, senza esibire sparatorie mai viste, costituisce un’abilità degna d’encomio. Che non sacrifica il rispetto dell’autenticità al mito della spettacolarità. La virtù di ricavare la spontaneità di tratto dagli attori non professionisti, funzionali in Mediterranea, sorprendenti in A Ciambra, raggiunge l’acme con A Chiara. Quando lei, sconvolta dall’apprendere che quel genitore così affettuoso e riservato appartiene all’empio sistema della ‘ndrangheta, incrocia Pio in compagnia di ragazze d’origine rom tirando fuori il peggio di sé. Tuttavia Carpignano attribuisce l’efferrato gesto all’arroganza anziché all’involuzione. La scrittura per immagini, nel procedere alla scoperta dell’organizzazione segreta del traffico di droga organizzato dal papà latitante e all’ambientamento lontano dal contesto protettivo, evidenzia il moto di stima per Chiara. Swamy Rotolo l’impersona con pregevole naturalezza. Grazie anche al piano di reazione che ne impreziosisce la destrezza mimica sulla scorta dell’uggia frammista alla gioia di essere diventata finalmente maggiorenne. Il resto del cast stenta ad andare davvero in profondità. A dispetto dell’attendibilità cementata dalla conoscenza diretta. Degli animatori, dei parenti, degli assistenti sociali. Che uniscono al vernacolo le parole piene dell’italiano corretto. Sull’esempio di Visconti ne La terra trema. Solo che l’esito non crea lo stesso straniamento. L’impressione è che Carpignano, con buona pace della crescente tensione mandata ad effetto, abbia esaurito l’acume per analizzare gli stati d’animo scaturiti dai paesaggi riflessivi e dall’adesione familiare. Ritenuta colpevole dell’egemonia della disuguaglianza sull’illusoria uguaglianza. A Chiara percorre dunque una valida tastiera di percezioni, dalla certezza all’incertezza sino al giro decisivo, evita l’impaccio dei nani sulle spalle dei giganti, spogliando i rimandi dalle sbavature patetiche, e, giunta al traguardo, complici alcune discordanze dovute all’inattuabile terzismo, mostra la corda.

 

 

Massimiliano Serriello