Gli ordinari biopic fanno spesso e volentieri arricciare il naso agli alfieri del rigoroso cinema elitario. Refrattari, per partito preso, al carattere sbrigativo, oltre che agiografico, adottato di regola per esibire a sommi linee il carattere invece d’ingegno creativo di cantanti in grado di segnare le loro epoche conferendo alla musica leggera lo stesso spessore di quella classica.

L’esperto regista statunitense James Mangold, consapevole dell’indubbia poliedricità della propria cifra stilistica, non si preoccupa affatto delle ovvie riserve, avanzate a ogni piè sospinto dai saputoni di turno, e a diciannove primavere di distanza da Quando l’amore brucia l’anima – Walk the line, incentrato sul cantautore statunitense Johnny Cash costretto ad affrontare insieme all’ingannevole successo la manifesta ostilità dell’autocrate padre, punta sotto l’aspetto dell’opportuna penetrazione psicologica su A complete unknown. Sobbarcandosi l’onore e l’onere di rievocare le tappe risolutive della scalata alla celebrità d’un monumento vivente della levatura di Bob Dylan.

Il rischio di cadere nell’ammirazione incondizionata, che manderebbe a carte quarantotto la possibilità di frugare nella verità interiore dell’idolo per eccellenza di differenti generazioni, è scongiurato dal prodigo Mangold. Avvezzo a ricavare linfa dal suo nume tutelare Miloš Forman. Sia per quanto concerne la gradevole spontaneità di tratto degli apologhi sull’età verde, girati nella vecchia Cecoslovacchia, da L’asso di picche a Gli amori di una bionda, sia in riferimento ad Amadeus. L’inobliabile kolossal biografico sul geniale compositore austriaco Mozart. Schiavo dei vizi, ma al contempo prontissimo a cogliere dal tran tran quotidiano il pungolo per comporre opere rimaste alla storia. È indicativa in tal senso la scena in cui la pur orgogliosa collega Joan Baez, decisa a impattare nei mutamenti sociali pure attraverso l’attivismo militante, commisura la superiorità artistica dello sporadico amico di letto Bob Dylan unendosi a lui nel celebrare i versi dell’allora ignoto pezzo di stampo pacifista Blowin’ In the wind. In grado nell’immediato futuro di trascinare all’applauso persino i falchi maggiormente contrariati dallo scarso affetto per la Madre Patria di molti manifestanti. L’affettuosa ironia che serpeggia dapprincipio nel ritratto dell’acerbo personaggio, giunto a New York in pieno anonimato per raccogliere ed elaborare l’eredità del noto folkorista Woody Guthrie, affetto da atroci deficit neurologici sebbene capace con la risolutezza dei gesti ridotti al lumicino di accordare l’ambìta benedizione dopo aver sentito sul letto dell’ospedale il brano dedicato dall’allievo di belle speranze al mentore infermo, strappa il sorriso. Addirittura degli spettatori meno propensi ad acclamare i passaggi di consegne inclini al tenerume.

Nondimeno, nelle battute iniziali, se non altro, il racconto di formazione, che restituisce senz’alcuna titubanza l’aria che si respirava nella Grande Mela agli albori degli anni Sessanta, appare sprovvisto del valore terapeutico dell’umorismo. Ad appannaggio, al contrario, dei cult dell’inarrivabile guru cecoslovacco imperniati sull’accidentata evoluzione verso l’ardua maturità. Anche se la medesima cura dei dettagli, sostenuta dall’impeccabile perizia dei costumi e della scenografia, non basta a supplire all’assenza, pressoché totale, di guzzi satirici, eletti ad antidoti contro le secche della deleteria retorica, i lampi d’intelligenza volti ad accompagnare il passaggio da completo sconosciuto a simulacro in carne ed ossa non mancano. È sufficiente pensare ad alcuni silenzi carichi di palpiti sottesi, alla densità delle inquadrature dei momenti topici, ai consensi moltiplicati sulla scia delle massime entrate di diritto nell’immaginario collettivo, alle tinte livide frammiste ai fulgidi colori. Concepiti dalla destrezza di scrivere con la luce. Sono comunque i piani d’ascolto, garantiti dall’abile montaggio, ad avere la marcia in più, al pari degli alacri movimenti di macchina, ora a schiaffo ora fluenti, in merito al tormentone degli allontanamenti piccati e dei coinvolgenti riavvicinamenti. Specie con la fidanzata del periodo Suze. Ribattezzata Sylvie. Rimasta identica alla fiera ed eterea fanciulla avvicinata in occasione del concerto folk alla chiesa di Riverside. Secondo i canoni dell’inattaccabile dignità femminile. Decisa a togliere il disturbo, quantunque col cuore a pezzi, per non divenire, alle soglie dell’autolesionismo, l’isola sicura dove poter approdare al termine dell’ennesima avventura che dura lo spazio d’un mattino.

Elle Fanning conferisce morbida avvenenza ed empiti d’inobliabile trasporto sentimentale alla romantica e spiritosa partner. Avvinta dall’iconica sequenza del mélo hollywoodiano Perdutamente tua nella quale Paul Henreid accende due sigarette in contemporanea per poi porgerne una alla diva Bette Davis. Consapevole di non dover chiedere la luna perché ci sono le stelle. Il gesto, a braccetto col monito filosofico, acquisito immediatamente dall’instabile coppia sensibile al saldo richiamo citazionistico, si va dunque ad aggiungere al vivace mosaico di composite situazioni. Che evitano la caduta nel dolciastro con l’ausilio in particolare della fragranza dell’autenticità. Emanata in modo concorde con le persuasive soluzioni di continuità predisposte dall’attento copione. Le aperture paesistiche sfoggiate nei luoghi attigui al Newport Folk Fest Performance del 1965, quando Bob Dylan sostenuto dalla complicità di Johnny Cash, per la gioia del compiaciuto Mangold, sfida i poteri forti dell’industria dello spettacolo ed espone al superficiale dissenso dei fan legati alla tradizione il profondo contenuto delle canzoni in controtendenza rock con la chitarra elettrica, pagano però dazio al mero bozzettismo di facciata. A differenza della descrizione ambientale del Greenwich Village e dell’appartamento sulla West 4th Street condiviso con Sylvie alias Suze. In linea coi parametri della geografia emozionale sancita dall’interazione ad hoc tra habitat ed esseri umani. Sa vicevarsa un po’ troppo di scontato lo scambio di battute, peraltro attinto all’epilogo cool di Insider – Dietro la verità di Michael Mann, in merito al concetto di vittoria frutto della persistenza della goccia che buca la roccia, con Joan Baez. Ben interpretata comunque sulla scorta d’una rimarchevole gamma di sagaci sfumature da Monica Barbaro.

Edward Norton, nei panni del folk-singer Pete Seeger che accetta obtorto collo l’inno al cambiamento dell’indocile discepolo, fornisce, differentemente, una prova assai convenzionale. Le parole delle canzoni che attraversano a tutta birra l’arco narrativo entrano, all’opposto, sotto pelle. La penuria dell’aura contemplativa, che sottrae le calcolate pause dalle manifestazioni di mutuo entusiasmo al tedio di piombo rendendole ipnotiche, è compensata parzialmente dalle idonee note sociologiche, dagli indugi su aneddoti in possesso dell’avvertita giustezza introspettiva, dagli assoli degli strumenti musicali in chiave intradiegetica. Ad alzare decisamente l’asticella provvede l’avvertito mix d’impuntature ideologiche ed esami comportamentistici. L’adesione recitativa del bravissimo Timothée Chalamet, sul versante del gioco fisionomico, agli slanci, alle esitazioni, alle confessioni, agli sguardi di sbieco o da cucciolo dello sconosciuto destinato a diventare l’artefice dei brani più famosi dello scorso secolo, al punto da vincere il Premio Nobel per la letteratura, merita la ciliegina sulla torta dell’Oscar per il miglior attore. La potenza evocatrice di A complete unknown, a dispetto dei fuochi fatui del mero poeticismo congiunto alla motivazione ufficiale del tributo ricevuto “per aver creato nuove espressioni poetiche nella grande tradizione della canzone americana”, cementa così la molla dell’ispirazione a getto infinito. Con The house of the rising sun e When I left home sugli scudi. Ghermite nei primi vagiti dal versatile e gongolante Mangold.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Plugin WordPress Cookie di Real Cookie Banner
Verificato da MonsterInsights