Un uomo affetto dalla neurofibromatosi di tipo 1, ovvero una massa tumorale che determina una totale deformità del volto, cerca di coronare il suo sogno e diventare un attore. È con queste premesse che il regista americano Aaron Schimberg dirige A different man, dopo aver trattato tematiche simili nel lungometraggio del 2018 Chained for life.
Edward, interpretato da Sebastian Stan, noto soprattutto per aver indossato i panni del “soldato d’inverno” Bucky Burnes nella saga di Captain America, nel film di Schimberg porta in scena un aspirante attore affetto da una deturpante malattia che ne sfigura il volto.

La sua esistenza, che si trascina anonima e rassegnata alla solitudine, subisce uno scossone nel momento in cui Ingrid, una drammaturga interpretata da Renate Reinsve, si trasferisce nell’appartamento accanto al suo. I due stringono un’amicizia, ma per Edward il rapporto muta in un sentimento che, però, non viene ricambiato. Nel frattempo si sottopone a delle cure mediche sperimentali che potrebbero guarirlo dai tumori presenti sulla faccia. Queste si rivelano efficaci, tanto da fargli ottenere un aspetto molto attraente. E decide quindi di dare un taglio netto con la sua vita passata, fingendo la sua morte e cambiando nome in quello di Guy, come se fosse rinato sul serio. Intraprende poi un nuovo lavoro come agente immobiliare, raggiungendo un notevole successo. I fantasmi del passato però, lo tormentano di nuovo nel momento in cui scopre che Ingrid ha scritto un’opera teatrale sulla loro amicizia. Colto da un sentimento ambiguo e morboso, decide di interpretare il ruolo di Edward e, senza farsi riconoscere, partecipa all’audizione, riuscendo ad ottenere la parte. Le cose però si complicano quando inaspettatamente, durante le prove dello spettacolo, irrompe Oswald, incarnato da Adam Pearson, il quale manifesta la medesima malattia e i sintomi evidenti che aveva Guy nella vita precedente.

A different man è un film carico di suggestioni, la cui visione necessita di particolare attenzione per apprezzare e godere del gusto estetico e della profondità dei contenuti, che insieme fanno del lungometraggio un’esperienza da ricordare. La psicologia di Edward viene associata ad una percezione di sospensione temporale, in bilico tra una dimensione stile anni Settanta e i nostri giorni. Questa metafora visiva discerne lo stato d’animo e le emozioni profonde del personaggio, mettendolo in relazione il quando era sfigurato e il post trattamento medico. Il piccolo appartamento di Edward, il mobilio, lo stile degli abiti che indossa e perfino la grana della pellicola rievocano un passato lontano, immergendo lo spettatore in una realtà che disorienta. Tanto da far pensare che il film si svolga a tutti gli effetti nei seventies, al fine di comprovare l’alienazione del protagonista. Merito anche della fotografia di Wyatt Garfield, che dona quell’effetto sgranato e quasi acquarellato, molto retrò, rendendo l’atmosfera straniante. La guarigione e la nuova vita nelle vesti di Guy determinano invece un cambiamento radicale, anche psicologico, che percepiamo in modo raffinato mediante l’uso delle immagini in alta definizione (sublime ancora una volta il direttore della fotografia), attraverso la modernità degli ambienti, tramite gli abiti indossati da Guy e la comparsa della tecnologia moderna. La scissione psicologica del personaggio viene quindi evidenziata attraverso l’allegoria di una realtà visivamente sospesa tra due universi percepiti, evidenziando l’estro autoriale del regista, che ben padroneggia la tematica del doppio.

Introducendo anche il personaggio di Oswald, Aaron Schimberg si spinge ancora oltre, poiché egli, pur avendo un volto deforme, mantiene uno spirito pieno di ottimismo e caratterizzato dal buon umore. Da qui Guy/Edward, al contrario, inizia a risentire delle sue solite insicurezze che lo sprofondano in una nuova depressione. Il tema affrontato dal regista non verte solo sul doppio, ma anche sull’accettazione di sé attraverso la trasfigurazione di Sebastian Stan, che denuncia fragilità, in confronto alla solidità psicologica di Oswald, che non dipende da fattori esterni. L’attore Adam Pearson che lo incarna, inoltre, è realmente affetto dalla neurofibromatosi di tipo 1, e conferma la tesi che non è l’aspetto quindi a determinare lo stato psicologico, ma l’indole di una persona che, a prescindere da altri fattori, vive nella piena accettazione di sé. Schimberg, tratta la tematica con maestria, associando i cambiamenti psicologici col mutare delle immagini e delle ambientazioni, al fine di trascinare lo spettatore nell’esperienza di una scissione del sé che tracima nella depressione. A different man fa parte di quelle opere che non passano inosservate. Schimberg scandaglia nel profondo l’animo umano, senza mai essere banale o stucchevole. Una menzione speciale per le musiche di Umberto Smerilli, che, insieme alla fotografia già citata, al sapiente montaggio di Taylor Levy, e allo straordinario make-up prostetico per Edward, ad opera di Mike Marino, determinano quell’unicum atto ad aprire le porte della psiche ad un flusso di coscienza che fa riflettere.
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