La bellezza di questo primo disco di Alessandro Mogni in arte A Quiet Guy, ha un senso di pace e di liberazione ma anche di dannazione allo stesso tempo. “Corpi estranei” è di per se un titolo che significa tutto e il contrario di tutto a pensarci. La bellezza di questi manti di delicatissima contemplazione, sono frutto di una bellezza nata dall’immersione della provincia italiana. Siamo in Pianura Padana, ma potremmo essere ovunque. Luci soffuse. Poi il resto va misurato con la lentezza di un artigiano.

Noi iniziamo sempre parlando della bellezza, andando oltre al manifesto dell’estetica. Per te cosa significa bellezza per davvero?
Bene, una domanda semplice per iniziare! Rispondendo di getto ti direi ciò che mantiene una sua autenticità, magari nonostante il contesto, porta con sé bellezza.

E dove la cerchi? E quando sai d’averla trovata?
A me colpisce molto la bellezza della natura, soprattutto la montagna e i boschi. Forse è banale ma se penso di doverla andare a cercare fisicamente andrei lì. Anche nelle parole di un buon libro e sicuramente nei dischi o nei film; in generale in tutte le forme artistiche ci sono opere che più di altre mi “arrivano” ed associo al bello. Per essere più prosaici anche una birra nel bar del paese con un amico è bellezza. Ciò che unisce queste esperienze direi che è il senso di serenità che mi trasmettono.

Questo disco è pure sempre un corpo estraneo se inserito dentro le abitudini che abbiamo. Ma è un corpo naturale e “normale” dentro quale contesto secondo te?
Ma, per me è un disco che si colloca benissimo in una routine in cui sempre più spesso ci ritroviamo ad essere noi corpi estranei. La stesura dei sette brani che lo compongono è avvenuta proprio con l’intento di descrivere sensazioni e stati d’animo che riguardano la “normalità” che vivo e quindi, in quest’ottica, non è lui a risultare estraneo.

Questa voce sottilissima che troviamo nel primo atto dell’opera: chi è? Quanta distopia orientale mi viene alla mente…
È bello che ti rimandi all’oriente anche se la voce è campionata da un film francese, “Masculin feminin” di Godard; l’ho scelta perché mi piaceva come arricchiva il brano e dava una sfumatura totalmente diversa dalla versione solo prettamente strumentale. C’è in effetti un filo conduttore che parte dalla Nouvelle Vague francese e arriva a quella più recente orientale, magari è per questo motivo che ti ha suscitato certe fascinazioni.

Ci leggo tantissima consapevolezza, nessuna rivoluzione o rabbia. Ma esiste anche la salvezza dentro questo disco?
Sì in effetti se penso al periodo in cui l’ho scritto c’era probabilmente un’urgenza diversa rispetto al solito: meno rabbiosa, forse un po’ più matura, se me lo permetti. Non c’è però l’intenzione di trasmettere emozioni esasperate, definitive. È più la descrizione di stati d’animo, più o meno passeggeri, che possono quindi lasciare spazio ad altro.

E un video? Ci deve stare… lo si immagina sempre ad ogni ascolto…
Me l’hanno chiesto in molti. Ho voluto dare precedenza al suono, il contrario di ciò che si fa nel cinema. E vorrei che l’attenzione rimanesse sui brani almeno per un po’, quindi non mi sono preoccupato di cercare qualcuno che si occupasse del video. Magari più avanti dedicherò tempo anche a questo aspetto, soprattutto in futuri live sarebbe bello usare anche le immagini in sinergia con la musica.


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