A Tor Bella Monaca non piove mai: l’esordio registico di Marco Bocci

Esordio in cabina di regia dell’ambizioso e sensibile attore marchigiano Marco Bocci, noto soprattutto per aver vestito i panni dell’immusonito commissario Nicola Scialoja nella serie tv cult Romanzo criminale, A Tor Bella Monaca non piove mai rappresenta uno schietto omaggio all’hinterland capitolino dove, insieme alle ingiurie giornaliere, esacerbate dal degrado etico, si vanno ad appaiare pure teneri moniti di speranza ed echi assai stimolanti.

Un esordio in cui prendono piede, infatti, richiami citazionisti piuttosto evidenti, oltre ai modi di dire romaneschi, ormai triti e ritriti, seppur non privi di una certa efficacia, soprattutto sul piano del sarcasmo frammisto all’inane disincanto, smentito, però, dal profondo cruccio per l’incertezza del futuro.

Tuttavia, nell’esporre l’icasticità dei caratteri, dal ruvido ma corretto Romolo, deciso a seguire la via della legalità dopo i trascorsi delinquenziali, all’imbelle fratello Mauro, incapace di sbarcare il lunario da solo e di prendere le distanze dalla fedifraga fidanzata Samantha che gli ha preferito un medico danaroso, l’ovvio ciclo d’illusione-delusione allunga il brodo.

Il desiderio di rileggere l’effigie del quartiere malfamato traendo partito dai precetti della geografia emozionale, per cui i luoghi incidono sui modi di agire e sugli stati d’animo, paga così dazio ad alcuni rigidi schemi narrativi. Ravvisabili nelle pieghe patetiche in seno alla famiglia composta anche dal padre Guglielmo, un Giorgio Colangeli inviperito per la faccia tosta dell’inquilino partenopeo che non gli paga l’affitto del negozio, dalla mamma invalida e dall’insoddisfatta moglie di Romolo.

L’attenuazione delle componenti grottesche – con cui, invece, nell’indimenticabile commedia all’italiana Brutti, sporchi e cattivi l’esimio Ettore Scola seppe dare nuova linfa alla contemplazione degli affanni dei borgatari d’ascendenza pasoliniana – impedisce al parlato filmico di sublimare le convenzioni dei segnali discorsivi e delle battute amare.

L’assoluta capacità di scrivere con la luce, di comune accordo col direttore della fotografia, trascende i limiti della minuzia degli aneddoti. Anche se contribuisce, accidentalmente, ad aumentare il gap tra ragioni figurative e riverberi psicologici nell’interazione tra habitat ed esseri umani. Il leitmotiv dei personaggi alla finestra, con gli elementi ambientali spesso sfocati sullo sfondo, offre timidi ragguagli al rapporto d’umana pietà congiunto al disagio delle periferie.

L’ostinato ricorso ad alcuni espedienti fini a se stessi, come le continue correzioni di fuoco da un soggetto all’altro e i pedinamenti zavattiniani, aggiunge ben poco alla crudezza oggettiva d’origine neorealista. È l’inattesa egemonia delle sfumature sugli accenti ad avere la parte del leone consentendo ai valori pittorici di unirsi agli eloquenti silenzi anziché finire in una mera bolla di sapone.

Il lavoro di sottrazione, caro allo ieratico ed erudito Robert Bresson, trasforma le prove recitative, solitamente subalterne rispetto all’estro delle soluzioni sceniche e dei simbolici movimenti di macchina, nel maggior motivo d’interesse. Ed è nella virtù essenziale degli sguardi carichi di senso che Bocci muta segno e impreziosisce i momenti d’arida inquietudine, dove si consuma il miraggio di un’inversione di tendenza dinanzi all’inesausto scoramento, con l’analisi sotterranea dei brevi, sia pure incisivi, ritagli esistenziali.

Al di là delle flebili varianti ironiche, che strappano i sorrisi degli spettatori affezionati altresì al dinamismo dell’azione, la dinamicità interiore diviene un’alternativa dalla forza significante in grado di garantirle un’ombra di simpatia anche presso il pubblico alieno ai grattacapi intellettualistici. Nell’ambito dell’ampia galleria d’immalinconite figure di fianco, intente a sciogliere i nodi drammatici dell’intreccio, emerge la dote di parlare con gli occhi. Lo dimostra, a tratti, l’intenso Andrea Sartoretti, nel ruolo del protettivo Romolo, che cerca di tenere lontano dalle tentazioni nefaste Mauro, ovvero Libero De Rienzo.

È però l’antiretorica del bravissimo Federico Tocci, che nobilita il profilo dell’uomo d’ordine deciso a non buttare al vento mesi d’appostamenti e di restituire alla vita un collega vittima dell’ingiustizia del sistema, a chiudere il cerchio. L’idoneo colpo d’ala dell’epilogo, grazie proprio ai suoi occhi azzurri colmi di misterioso ed emblematico rimpianto, estranei tanto ai pigli belluini quanto a quelli imbambolati, trascina in A Tor Bella Monaca non piove mai persino le platee meno propense nella vertigine mentale della poesia. Lontano dall’accidia dei vani prestiti stilistici.

 

 

Massimiliano Serriello