Abbi fede: Le mele di Adamo all’italiana

È la qualità spontanea della recitazione il valore aggiunto dell’apologo sul cambiamento Abbi fede, remake dell’intenso ed erudito dramedy Le mele di Adamo.

La visione del film, prevista da Giovedì 11 giugno su RaiPlay renderà evidenti limiti e pregi, accenti e sfumature, echi e controechi, marce all’indietro e in avanti di qualcosa comunque che travalica una mera ed estremamente sfruttata strategia di rischio dell’insuccesso prevista dai soliti esperti di marketing. Saranno comunque numerosi i cinefili intenzionati a ripetere l’esperienza precedente, come fruitori del modello originario, impreziosito dalla sapiente tenuta stilistica dell’abile regista danese Anders Thomas Jensen. Artefice altresì del misconosciuto ma significativo affresco dolceamaro Men & Chicken (Mænd og høns). In cabina di regìa Giorgio Pasotti all’umor nero col quale l’illustre collega scandiva le traversie patite dal mite e illuso prete Ivan Fjeldsted alle prese con l’iracondo Adam O. Pedersen, costretto in parrocchia pur di riassaporare la libertà sottrattogli per i reati commessi, sembra anteporre gli stilemi del noir. Che non sono esattamente la stessa cosa. Anzi. Il desiderio di alzare addirittura il tiro, pur di non cadere nel mero esercizio calligrafico, gli permette comunque di tenere ben salde le redini del racconto quando l’opportuno climax prende piede con maggior efficacia. Il frastuono del temporale, al chiuso, nella casa di Dio, tiene sui carboni ardenti almeno gli spettatori ignari de Le mele di Adamo.

Il termine di paragone, come nel caso di Benvenuti al sud di Luca Miniero inevitabilmente raffrontato con il modello di partenza Giù al nord di Dany Boom, ricondurrebbe tutto nella faccenda delle debite interpolazioni. Quelle poste in essere da Pasotti fanno la differenza? Giungere a facili conclusioni in questi casi allontana da un giudizio critico sereno e obiettivo. L’incipit aggiunge poco. L’immediato prosieguo solletica il gusto delle platee attratte dall’arte della recitazione. Secondo Moravia si trattava d’uno spettacolo in ogni caso di secondo rango. Almeno rapportato alle soluzione espressive degli ingegnosi registi eletti ad autori ed ergo a demiurghi agli occhi di chi non crede in Dio. Ma in Robert Bresson. Giorgio Pasotti non è certo Robert Bresson: il lavoro di sottrazione non rientra nelle sue corde. Tuttavia alcune trovate colgono nel segno. Senza chiaramente aggiungere all’invisibile, togliendo al visibile, né produrre il soprannaturale prendendo il via dal reale. La contraddizione di fondo, per cui la destra nata all’epoca degli Stati Generali, dopo l’attacco alla Bastiglia, per preservare la fede in Dio, il valore più sacro ereditato dalla tradizione, dal vento rivoluzionario, diviene l’emblema dell’assoluta ed empia mancanza di fede, permane. La virtù di stemperare nell’ironia la pesantezza dell’esplicita riflessione esistenziale assume una funzione piuttosto programmatica.

L’ammirazione di Pasotti per gli scandagli introspettivi di Ingmar Bergman lo porta spesso fuori strada: i suoi primi piani non trovano mai l’ambìto punto di convergenza tra guardare e immaginare. Per penetrare le viscere delle derive violente ed estreme legate alla forza della consuetudine in contrasto col buonismo cristiano, che non trova sempre l’adeguata corrispondenza nella realtà (basta pensare a quella della Bassa reggiana, con don Camillo, colta quasi dal vivo da Guareschi in Mondo piccolo), occorreva ben altro sforzo. E, soprattutto, ben altro ingegno. Ma, è chiaro, si fa quel che si può. Ciò che ha potuto Pasotti guadagna nella valorizzazione del trasporto creativo legato alla recitazione ciò che perde sul versante dell’osservazione delle condotte. I comportamenti legati a filo doppio all’habitat convincono a metà. Le gag dell’immusonito Adamo col terrorista arabo che non ha niente da invidiare in ferocia ed estrema precisione nello sparare alle cornacchie colpevoli d’insidiare le mele dell’albero, simbolo dell’ordine naturale delle cose, strappano il sorriso. Ma nulla di più. Nell’ambito del cinema da camera, invece, caro al riverito Bergman, lo stesso Pasotti si dirige in maniera convincente. E, cosa più importante, spinge l’intero cast a dare il meglio. Specie il bravissimo Robert Palfrader nei panni dello sciatore divenuto schiavo della bottiglia. I rimandi a Qualcuno volò sul nido del cuculo, che avevano reso uno spasso Le mele di Adamo, latitano. Nondimeno i movimenti in avanti della macchina da presa, capaci di cogliere la reazione mimica del reazionario dinanzi all’aria di sfida del terrorista dalle pose grottesche, trascendono il retaggio dei soliti luoghi comuni.

I luoghi, quelli veri, smettono di cadere nel cartolinesco ed ergo nell’esornativo quando compare una funivia e con essa la necessità espressiva dei campi lunghi. L’atmosfera western dura poco. La rimpiazza con empatia il valore terapeutico dell’umorismo caldeggiato dalla bravura di Roberto Nobile. Memoraile nella parte di Padre Ludovico in Santo Stefano. Ancor più in Abbi fede nelle vesti del medico che antepone il brio alla pietà. Il desiderio di riuscire a fare un tortino di mele, al termine di una serie d’imprevisti piuttosto prevedibili, persino per i cinefili avventizi, coglie l’interesse comunque delle platee maggiormente scaltrite. Il merito è interamente di Claudio Amendola. L’egemonia dello spirito sulla materia si va ad amalgamare alla prevalenza della psicotecnica sulle tecniche di straniamento dell’attore-regista Pasotti eleggibile ad autore. In realtà l’elezione autoriale la merita l’attore di punta che ha conosciuto la strada. Da ragazzo di sinistra cresciuto in un ambiente di destra. Attingendo alla componente del reale. Il lavoro dell’attore su se stesso e sul personaggio sfrutta le tenui ipotesi del copione. Le affina persino. La mimica dell’ex ragazzo, con le rughe d’espressione sugli scudi e la risata marpiona trasformata in smorfia sinistra, conferma la destrezza di un talento che va oltre il segno di ammicco riconducibile nei giochi di parola. Messo in cantina il castigo di Dio, la ripresa dall’alto con lo sguardo del Padre Eterno chiude le danze. Alla Lars von Trier. Un altro nordico bello tosto. Basta ad alzare il tiro in Abbi fede? Forse no. Ma è sufficiente per continuare ad avere fede nel cinema. Tra pregi, difetti ed echi curiosi. Non è mica poco. A Dio piacendo.

 

 

Massimiliano Serriello