Alberto Nemo: la spiritualità oltre il suono

Direi che c’è dentro un mondo difficile da esplorare quando la prima cosa che viene a mancare è la luce. Ma forse è questa la ricchezza prima per la spiritualità che diviene grande nell’immaginazione che ha del tutto circostante. E parliamo di bellezza con un artista dalle grandissime doti vocali, di questa voce che diviene suono, di questa scrittura che non cede ai compromessi, di questa estetica che non è quel che rappresenta ma cerca di essere quel che vuol sembrare. “Io Dio No” è il quattordicesimo disco di Alberto Nemo, vincitore nel 2018 di Musicultura, sicuramente un equilibrio instabile in format confezionati come The Voice of Italy. Di sicuro i cliché non sono il tema portante di questo suono, di queste liriche, di queste esperienze…

Noi parliamo sempre di bellezza, non da intendersi sempre come quella sfacciata da guardare subito. Ecco: per Alberto Nemo cos’è la bellezza?
Premessa: non si è la risposta che si da.
C’è una storia della bellezza raccontata dagli artisti di ogni tempo. Nel mondo Classico si trattava di canoni, in quello Romantico di emozioni, nel contemporaneo, come ebbe a scrivere Jenny Holzer, è il denaro che determina il gusto, quindi anche la bellezza. Nel mio lavoro esprimo una dimensione arcaica del bello, non quella idilliaca dell’Arcadia, ma di chi l’ha conosciuta, l’ha persa e ora ne canta la meraviglia.

E restando sul tema, come e quanto la bellezza interviene nella costruzione di una composizione? Quanto spazio prende, quante regole detta… quanta importanza gli viene riconosciuta?
Credo d’aver uno stile riconoscibile e chiaro fatto di elementi molto semplici. Questa è la mia cifra, la bellezza che ho costruito e a cui non rinuncio. Le sue regole sono molto severe e sono sempre pronto a sacrificare qualcosa per la giusta resa di un brano. “Nemizzare” significa distillare una cosa fino a trarne lo spirito più puro. Questo è quello che faccio in fase di composizione.

Oggi siamo nell’era dell’apparire. Forse l’apparire ha sostituito quasi ogni cosa, compresa – forse – la bellezza. Cosa ne pensi?
La bellezza non sta in ciò che appare ma in quello che resta nel tempo. È il silenzio che segue la fine di una musica. È un’idea che muove le nostre azioni. Un pensiero che tiene conto di quello che nella storia è stato fatto per esorcizzare l’orrore e la violenza della natura, un secondo soffio creatore fatto dall’uomo sul creato che lo reinventa sotto forma poetica per renderlo meno spaventoso. Questo gesto eroico dell’umanità che, nonostante tutto, alza le testa e fiorisce come “La ginestra” di Leopardi. La bellezza non è il fiore ma il coraggio e tutta la fatica necessaria per arrivare alla fioritura.

La tua musica, il tuo personaggio, ciò che sei ha sempre remato contro i “normali” cliché dello spettacolo. E questo lo considero un dono. Eppure anche nel tuo modo di scendere in campo metti in scena, sfacciatamente, un personaggio che dal punto di vista estetico, in modo originale, parla però il medesimo linguaggio… o sbaglio? Ecco, generi musicali a parte, l’eccentricità di Achille Lauro la trovo paragonabile alla tua… un andare contro le “regole” pur restandone tacitamente incollati…
“Datemi una maschera e vi dirò la verità”. Questo aforisma di Wilde può essere un’ottima risposta. In questo anno dedicato a Fellini, Maestro della “mise en scène”, si può cogliere bene questo pensiero: la verità si può dire solo attraverso una finzione, una scena di cartapesta, una mascherata. Al giullare era permesso di sbeffeggiare i potenti e di prendere in giro le regole, così come al teatrante. Fuori da questa licenza si era condannati. Ecco allora le fantasmagorie di Renato Zero e i personaggi interpretati da Lauro, un novello “Orlando”. Chi ha voluto dire e cantare la verità senza trucco è stato emarginato e tagliato fuori, penso a Pasolini, a Umberto Bindi e ad altri che si sono esposti senza filtri. Per quanto mi riguarda penso (e temo) di appartenere alla seconda categoria, quella che può apparire come una posa o un personaggio costruito. Quando cammino per strada o sono nel mio studio sono proprio così come quando mi esibisco. Forse, per essere sincero fino in fondo, un poco di scena c’è, ma è quella necessaria a chiunque per essere veramente se stessi.

“Io Dio No” è un titolo forte. Cosa cerca di significare e cosa proprio non vuol significare?
Questi tre vocaboli pesanti come macigni sono frutto di un’improvvisazione utilizzando il flusso di coscienza, come spesso avviene in fase di scrittura dei miei testi. Sono una triade potente, quasi una sintesi assoluta. Cambiando la loro posizione si sovverte il modo di guardare tutto. Non è un’affermazione, è una sorta di esposizione sulla stessa riga di tre entità che attendono da noi di essere prese in considerazione nell’ordine che sceglieremo. Il “No” ha una valenza molto importante, una terza via che sancisce la libertà dell’uomo di potersi smarcare da qualsiasi ruolo o identificazione preconcetta. Una possibilità di salita in solitaria sulla vetta della conoscenza fuori dai sentieri tracciati. È l’omaggio ad un grande personaggio letterario che mi accompagna da sempre: Bartleby lo scrivano di Melville.

A chiudere: il suono rarefatto corre parallelo ad una vissuto in cui c’è poco “rumore”? Una domanda metaforica che però con piglio artistico e visionario vuol scendere nel tuo vissuto personale…
Nel mio vissuto c’è tanto rumore, spesso assordante, che non espongo mai perché, come ho detto precedentemente, mostrare la propria nuda realtà non è possibile e non è il compito di un artista. Dai miei battiti e dal fruscio del mio sangue nelle vene colgo un senso figurato, una storia, un suono che li rappresenti, poi coltivo il tutto con quanto più amore possibile perché infine possa nascere un fiore.