Almost dead: dodici domande al regista Giorgio Bruno

Un incidente d’auto, un bosco notturno e popolato da uomini contagiati da una tremenda epidemia che ha tramutato tutti in zombi. In mezzo a tutto, sola, la dottoressa Hope Walsh, costretta a rimettere insieme i ricordi e i pezzi della storia, per salvarsi la vita in una lotta contro i mostri e contro se stessa.

Sembrano pochi ingredienti, ma sono bastati al regista catanese Giorgio Bruno per aggiudicarsi con il suo horror psicologico Almost dead il Pipistrello d’oro come miglior lungometraggio italiano alla trentasettesima edizione del Fantafestival di Roma (Mostra Internazionale del Film di Fantascienza e del Fantastico).

Abbiamo fatto qualche domanda al regista per saperne di più su un lungometraggio che ha già conquistato l’interesse del pubblico.

 

Fin dal titolo, Almost dead sembra volersi inserire nel filone degli zombie movie. Ma lo fa rimescolando gli elementi classici del genere in maniera del tutto originale. Quando è nata l’idea di uscire fuori dagli schemi conosciuti?

L’idea di Almost dead nasce da un incubo avuto a diciassette anni. Negli anni, poi, pensai che l’esperienza di quel sogno potesse essere un buon punto di partenza per un film, così iniziai a svilupparlo. Man mano che andavo avanti, tuttavia, mi allontanavo dall’idea di voler fare un classico e stereotipato film di zombi, mi affascinava molto più il dramma umano di Hope e delle tremende decisioni che deve prendere in poco meno di un’ora. La macchina è una sorta di limbo, di purgatorio. Non voglio dire altro per non svelare quel che succede a chi ancora non ha visto il film. Gli zombi, mia grande passione, hanno suscitato in me sempre forte meraviglia e, assieme ai miei sceneggiatori, credo che siamo riusciti a trovare una chiave di lettura interessante. Abbiamo voluto dare loro un’anima. In fondo, considero Almost dead un dramma mascherato da horror.

Quali sono stati i registi e i lavori cinematografici a cui hai guardato nel realizzare il film?

Quando si parla di zombi, vien subito da pensare al padre dei non morti, George A. Romero, e, sinceramente, non nego affatto la sua influenza. Ho sempre amato i suoi film e la filosofia contenuta nelle sue opere, ma, se devo essere sincero, oltre al compianto George, non ho avuto film o registi di riferimento. Nel mio nuovo film, My little baby, invece, ho reso omaggio ai miei registi preferiti, tra cui Sam Raimi, Peter Jackson e John Carpenter.

Un’ambientazione claustrofobica, ridotta all’osso. Un solo (non) luogo: l’automobile. Quale è il significato alla base di questa scelta narrativa?

L’automobile rappresenta il punto di non ritorno, una dimensione di passaggio e, soprattutto, il luogo senza apparente via d’uscita, dove riflettere sulla propria vita e le proprie scelte. Nella vita, spesso, ci sentiamo invincibili, ma, quando veniamo privati delle nostre certezze e ci troviamo di fronte alla morte (gli zombi?), ci scopriamo per quel che siamo realmente, esseri fragili, incerti e pieni di paura, soprattutto verso quel che non conosciamo (la morte?).

 Ma anche un solo vero personaggio, la dottoressa Hope Walsh. Una figura in lotta con se stessa, con le proprie colpe e incapacità, più che con gli zombi. Tutti ingredienti che portano il film verso una svolta intimistica. Il ripiegamento psicologico era l’effetto voluto?

Come già detto sopra, assolutamente si. Il dramma di Hope era quel che mi interessava maggiormente, molto più dello splatter tipico del genere. Tuttavia, spero di non aver deluso i fan del genere. Un minimo di antropofagia c’è!

 La dottoressa si chiama Hope, eppure il nome stride con una vicenda che non lascia molto spazio alla speranza. Come lo hai scelto?

Sinceramente, dietro questa scelta non c’è una vera motivazione. Mi piaceva questo nome!

L’aspetto degli zombi sembra strizzare l’occhio ai loro vecchi esempi cinematografici, senza ricorrere a particolari effetti speciali. Scelta narrativa o questione di budget?

Assolutamente scelta narrativa. È proprio lì che ho voluto rendere omaggio al film da cui tutto è nato, La notte dei morti viventi. Semplici, lenti, ma feroci e magari appena morti, quindi, senza troppa decomposizione.

 Quale è stato il momento più faticoso delle riprese?

Tutti gli undici giorni di riprese senza nessuno in particolare! In origine avevo a disposizione diciotto giorni, ridotti poi per via della pioggia. Questa, infatti, la prima settimana ha distrutto totalmente il set, ma ho avuto una squadra meravigliosa, che si è rimboccata le maniche e ha permesso questo film. Il cinema è un lavoro di squadra. Il regista è certamente la testa, ma senza il faticoso lavoro di tutti, non sarei riuscito nell’impresa.

Sei soddisfatto del risultato? Era il prodotto a cui avevi pensato?

Penso che ogni regista, quando rivede il proprio film, dopo del tempo vorrebbe sempre cambiare qualcosa, ma, in generale, sono molto soddisfatto. Era il film che volevo fare. Lo vedo e sono felice, così come sono felice di vedere le attenzioni che gli vengono date.

 Almost dead mescola horror, thriller, film psicologico. Quale genere senti più tuo? E da dove nasce questa passione per il genere scelto?

Certamente, mi sento molto più legato all’horror, ma, negli anni, crescendo, soprattutto, ho iniziato ad essere attratto dal lato drammatico delle storie. Temi come la perdita, la redenzione e il sacrificio fanno parte anche del mio nuovo film, My little baby, che racconta la storia di un bambino che ha da poco perso il padre, ma che, magicamente, riesce a rimettersi in contatto con lui attraverso dei walkie talkie giocattolo. La passione per il fantastico e l’horror l’ho sempre avuta. Credo sia nata con me!

 Quale messaggio ti piacerebbe che il grande pubblico riuscisse a leggere nella tua pellicola?

Sinceramente, non saprei, ma, più che un messaggio, quel che vorrei che arrivasse è un’emozione. Credo che ogni regista con la sua opera debba ambire a questo.

Come e dove si potrà vedere Almost dead?

Stiamo dialogando con varie società di distribuzione per l’uscita italiana. Intanto, in America è già uscito su varie piattaforme VOD, tra cui iTunes, Amazon, Google play, YouTube e, a breve, Netflix. A Febbraio in dvd e blu ray e, inoltre, siamo usciti in Giappone. Le prossime uscite sono Inghilterra, Benelux e Germania.

Per il futuro cosa possiamo aspettarci?

Come già anticipato prima, sto terminando le riprese del mio nuovo film, My little baby ,e sto già lavorando a due nuovi progetti.

 Quindi, in attesa di vedere entrambi i film sui nostri schermi… non rimane che aspettare!

Valeria Gaetano