Alps: il quarto lungometraggio di Yorgos Lanthimos

Yogos Lantihmos è, nel bene e nel male, un autore sulla bocca di tutti. Lo conferma l’uscita, seppur assai tardiva, del suo quarto lungometraggio, Alps, datato 2011.

Al di là del pluralismo dei punti di vista, in merito alla discussa cifra stilistica dell’ambizioso regista greco, che un anno e mezzo fa ha sfiorato l’Oscar con l’affresco storico La favorita, l’audacia espressiva di certe soluzioni tecniche trascende il vezzo dell’esercizio formale.

L’approdo di Alps nel mercato primario di sbocco, in una fase quanto mai critica per le sale cinematografiche, rappresenta una (ri)scoperta? Se non altro agli occhi degli spettatori intenti ad anteporre l’interesse nei riguardi del rapporto tra immagine e immaginazione a quello, piuttosto ovvio, riposto nel lancio di colossi dai piedi d’argilla tipo Tenet? L’incipit, con l’austero lavoro di sottrazione frammisto agli indugi della ballerina che suscita l’acredine del proprio mentore contestando l’utilizzo della musica classica, stenta ad acquisire gli stilemi cari al nume tutelare Bruno Dumont per aggiungere all’invisibile lo spazio levato al visibile. L’algida analisi degli stati d’animo cede però presto il passo alla capacità di cogliere l’ondeggiamento sotterraneo dei nervi tesi come corde di violino. L’intenso tragitto in ambulanza scandito dall’algida voce dell’anaffettivo soccorritore deciso a strappare informazioni in apparenza futili alla tennista vittima di un atroce incidente, destinata a lasciare l’ingrato mondo terreno, accresce la pur desueta suspense. Lo svelamento step by step dell’arguto margine d’enigma contribuisce infatti a frugare nella sofferenza dei parenti degli individui passati a miglior vita. Bisognosi di surrogati a conoscenza degli attori preferiti, delle abitudini, dei tormentoni alla base del tran tran giornaliero.

I nomi in codice affibbiati ai componenti del gruppo, che trae partito dal nome della celebre catena montuosa, ritenuta dal capobranco l’esempio di una vetta avvezza a ogni impersonificazione, rimandano, sotto sotto, all’analoga sequenza presente in Le iene – Cani da rapina di Quentin Tarantino. Il segno d’ammicco, sia pure subordinato al fermo proposito di rivelare l’anima delle persone attraverso l’assoluto rigore dell’esame comportamentistico, rimedia all’assenza dell’azione perentoria gradita al pubblico dai gusti semplici. L’assidua lentezza, però, a furia d’insistere, anziché risultare ipnotica, ed ergo foriera di sorprese, finisce per divenire esasperante. E quindi noiosa. L’assiduo ricorso ora alle correzioni di fuoco, per accrescere il bisogno di vederci chiaro nei sentimenti degli alterego dei poveri morti, ora alla camera a mano, allo scopo di comunicare appieno l’immane senso di costante inquietudine dovuto alla pantomina della recita incapace comunque di lenire l’atroce spasimo per l’insopportabile scomparsa, non cava le castagne dal fuoco. Il processo d’identificazione dell’infermiera coi defunti resuscitati ad arte manca dell’empatia necessaria ad andare oltre la freddezza dell’intelletto. Mentre l’idoneo leitmotiv delle inquadrature di quinta sfrutta le chance offerte dalla poetica del quotidiano d’ascendenza neorealista, senza cadere nell’impasse dei plagi malcelati, in virtù soprattutto della verità psicologica emersa pedinando, insieme alle spalle del personaggio principale, l’intrinseca ansia di mentire per fermare il tempo, l’interludio panteistico mostra la corda.

Invece di dare immediato risalto alla spiaggia eletta ad attante narrativo, indicando l’inane speranza di vincere l’angoscia dei funerei interni, dai corridoi d’ospedale alle claustrofobiche stanze, il bagno in mezzo ai frastuoni dell’ordine naturale delle cose non crea alcun coinvolgimento emotivo. L’intenzione di giocare l’ultima carta con l’ampolloso slow motion, nella speranza di riempire di forza significante gli eventi traumatici connessi alla vertigine mentale di una donna ormai ossessiva, esacerba le cantilene sinistre e le note gravi. A nulla servono, perciò, le gag d’alleggerimento concernenti le frasi a comando pronunciate senza troppa convinzione nei goffi talami. Ad approfondire i diversi transfert dovrebbe provvedere il rito liturgico della dinamica interiore intenta a simulare qualsivoglia palpito di passione e moto d’affetto. Ma l’opera di giustapposizione sul piano sarcastico sottrae ad Alps persino il merito d’impreziosire la crescente tensione con lo studio introspettivo dell’implacabile follia. Il passo di danza conclusivo, con l’agognata musica pop sugli scudi, sebbene costeggi l’arguzia del colpo di scena e rifugga contemporaneamente dalle modalità troppo esplicative dei blockbuster, non tocca l’atteso traguardo dell’estro. Nondimeno, con la rivelazione in filigrana ed extremis dell’ennesima recita, sostenuta dalla prova atonale dell’intero cast, l’ambìto spettacolo nello spettacolo raggiunge la meta della sorpresa. E strappa in Alps anche qualche sorriso.

 

 

Massimiliano Serriello