America Latina: un thriller psicologico nell’Agro Pontino

Presentato alla settantottesima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, America Latina è il nuovo film dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, che avevamo lasciato affaccendati con i bambini ribelli della periferia romana di Favolacce.

In questo lungometraggio ci allontaniamo ulteriormente dalla capitale per giungere nelle campagne dell’Agro Pontino, mantenendo però le stesse atmosfere. Anzi, sorpassandole.

Ed è fra le desolate pianure della provincia di Latina (che ha ben poco di America) che sorge la bellissima villa di Massimo, il dentista benestante interpretato da Elio Germano (con un look che ricorda molto il Walter White di Bryan Cranston in Breaking Bad). Tra le mura di questo castello quasi perfetto, Massimo trascorre una vita ai limiti dell’onirico con la moglie Alessandra (Astrid Casali) e le due figlie Laura e Ilenia. Tutto prosegue liscio fino a quando il capofamiglia scende in cantina per cercare una lampadina nuova. La sorpresa che trova è agghiacciante: legata ad una colonna dello scantinato c’è una bambina imbavagliata e sofferente. Chi è la bambina? Da quanto tempo si trova lì? E, soprattutto, chi l’ha rapita e legata lì sotto? Le domande che sorgono spontaneamente nella testa del protagonista danno il via al thriller e alla sua lenta e regolare perdita di senno, schiavo dei propri scheletri nell’armadio (anzi, nella cantina) e del vizio dell’alcool. Il linguaggio registico ci costringe a rimanere incollati non solo allo schermo, ma, soprattutto, agli attori. Sono i primissimi piani a farla da padrone. Inseguono e assalgono ciascun personaggio e noi siamo obbligati a visionare ogni singola espressione di tensione, rilassatezza, paura o rabbia di uno straordinario Elio Germano e non solo. Un costante senso di agitazione vincola lo spettatore, nonostante le musiche malinconiche dei Verdena provino a mitigarlo.

La ricerca di questo stato d’animo ansiogeno vige sin dai titoli di testa caotici, creati con delle riprese mosse dei paesaggi pontini e le scritte in sovrimpressione di difficile leggibilità a causa del loro transito da sinistra verso destra. I campi strettissimi proseguono per l’intero film, evidenziandoci ogni dettaglio fisico degli attori, dall’occhio alla nuca, dalle labbra al pomo d’Adamo, senza risparmiarci neanche una fastidiosa pulizia dentale con trapano. Tutto è vicino, un predominante faccia a faccia che ci concede fiato solo nelle momentanee aperture delle inquadrature allargate, per lo più ambientali. America Latina è un film “buio”, non solo in senso umorale ma anche fotografico. La luce c’è, ma giusto quella necessaria. In altri momenti ci sono sfondi rossi, verdi o blu a evidenziare la silhouette di un protagonista che crolla a poco a poco nel degrado psicologico e fisico. Gli attimi di luminosità vera e propria sono quasi del tutto dedicati alle sequenze familiari con le figure splendenti (in abiti bianchi e “angelici”) delle tre donne di casa. Un altro elemento sensoriale che permea il lungometraggio, stavolta di natura uditiva, è il silenzio. Ci troviamo di fronte a un thriller psicologico silenzioso, sussurrato.

In diverse occasioni i dialoghi sono ridotti al minimo e lasciano spazio a respiri ansimanti, sospiri e suoni gutturali, salvo poi esplodere in picchi di rumori improvvisi come suoni metallici di percosse e grida. La tensione scorre, così come l’acqua: che scaturisca da una tubatura rotta, maceri stantia in una piscina non curata o sgorghi depurante da una doccia, è essa che prova a spegnere le fiamme che divampano nell’animo sconvolto e in caduta libera di Massimo. Un uomo fragile, costretto a cercare rifugio in posizioni fetali, nelle carezze della moglie (come fosse una madre) e, soprattutto, nelle lacrime (ancora l’acqua), la vera valvola di sfogo che puntualmente ritorna, come gli ricorda suo padre (Massimo Wertmüller) in un dialogo a due tra i più intensi del film. È proprio quando l’acqua sfiora la gola che la storia si sbilancia. Il vaso stracolmo che si rovescia sa quasi di liberazione e ci svela come stanno davvero le cose. Non si può negare che, a un occhio allenato a certe tipologie di film, il twist ending di America Latina risulta prevedibile, per via di meccanismi già visti in molti lavori di questo genere e a causa dei facili indizi disseminati qua e là, nemmeno troppo celati. Viene quasi da pensare che i registi (anche sceneggiatori) non volessero puntarci più di tanto, preferendo di esaltare il resto. È infatti il percorso che ci porta lì ad essere vincente, un agglomerato lento (ma intenso) di novanta minuti che mantiene lo spettatore ancorato sulla poltrona.

 

 

Alessandro Bonanni