L’ambizioso ed eclettico regista egiziano Mohamed Diab con la sua terza fatica dietro la macchina da presa, Amira, cerca di compiere un netto passo in avanti confronto ai film precedentemente diretti sulla scorta del senso d’appartenenza al proprio territorio e dell’assoluto bisogno di denunciare tramite la scrittura per immagini le distorsioni sociali che l’attanagliano.
La questione mediorientale concernente l’atroce conflitto tra palestinesi ed ebrei lo coinvolge chiaramente meno, sotto l’aspetto emotivo, del sincero compianto per l’indigesto carico di speranze andate in fumo dopo l’amaro termine della rivoluzione d’Egitto.
L’idoneo distacco, intento ad anteporre l’ispirazione suggerita dalla materia grigia ai dettami del cuore, gli ha quindi permesso d’incentivare il risolutore carattere d’ingegno creativo? Lo spiccio scandaglio ambientale dell’incipit, debitamente connesso però all’aguzza analisi degli stati d’animo, evidenzia di certo l’egemonia del lavoro di sottrazione sulla sempiterna tentazione dell’iperbole gradita alle masse che prediligono l’accumulo d’inserti ed effetti mélo. All’esacerbazione, da copione, dei sentimenti collegati al rapporto tra habitat ed esseri umani Diab preferisce di gran lunga tenere col fiato sospeso gli spettatori. Sia quelli dal palato fine, allergici dunque ai colpi di gomito del cinema commerciale, sia quelli dai gusti semplici. Refrattari ai dispensi di fosforo, conformi pure al groviglio d’ipotesi dei gialli in chiave intellettuale, ma coinvolti dai classici congegni della suspense.
Il viaggio compiuto per andare a trovare il padre carcerato, che ha concepito la diciassettenne Amira in gattabuia per mezzo della fecondazione assistita, le scelte luministiche decretate grazie al prezioso ausilio dell’abile fotografia, in grado di chiarire gli empatici nessi tra interni evocativi ed esterni rivelatori, i momenti d’apprensione, uniti dall’alacre montaggio alternato agli attimi distensivi della protagonista insieme ai bimbi ignari d’ogni agghiacciante palingenesi, appagano appieno le inquiete attese d’una platea avvezza tanto all’eterea tensione formale quanto al concreto nitore contenutistico degli aneddoti quotidiani. Quando il secondo campione di sperma rivela la sterilità del detenuto, finito in carcere per sostenere con l’uso della violenza l’accesa causa palestinese, la trama entra nel vivo. La crisi d’identità, con lo scioccante pianto di fronte all’impietoso specchio, non sottrae il prosieguo ad alcune banalità narrative. Concesse per provare ad appaiare all’austero rispetto della sconcertante verità gli inopportuni stilemi della tragedia greca. Nondimeno il bisogno di svelare l’arcano, attraverso le piste del puzzle cosparse nel corso degli anni, anziché spingere l’autore a seguire i palesi canoni degli ampollosi apologhi sul tempo perduto, concede il giusto spazio alle sobrie ma compenetranti penombre introspettive.
Estranee sia alle situazioni sin troppo costruite, ed ergo del tutto prive d’autentico mistero, sia all’inadatta aria arcana dei reboanti e reclamizzati thriller d’oltreoceano. Rinunciando sul finale a determinati vezzi, tipici dei nani a corto d’idee personali sulle spalle degli estrosi giganti, allo scopo di rimanere fedele all’adagio in medio stat virtus, tranne per la dinamica in campo-controcampo tra padre e figlia attinta a Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme, Amira rinsalda le già solide motivazioni del racconto. L’inusuale dinamismo dell’azione, impreziosito dall’assennata stringatezza del ritmo, concentra la vicenda nel lancio di sassi al territorio indifferente, nell’inquadratura di quinta del risentito prigioniero, nonché nei moti d’affetto dispiegati dalle telefonate a distanza. Al di là del diktat dei legami di sangue e di suolo. Le risorse garantite in modo organico all’epilogo dai valori figurativi, per simbolizzare la canonica luce alla fine del tunnel, chiudono il cerchio. Resta in testa lo show di secondo piano fornito dall’intensa performance di Tara Abboud nei panni della ragazza in cerca di riscontri catartici. Che lo show primario rappresentato dalle soluzioni registiche lascia di proposito in sospeso. Amira giustifica perciò la spesa del biglietto dando un colpo al cerchio degli esigenti messaggi dottrinali e l’altro alla botte dei sentimenti d’incertezza di ricezione immediata tradotti in solidi stilemi spettacolari.
Massimiliano Serriello
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