Andrea Barone: rinascita, nuovi inizi lungo il percorso

Lunga carriera tra composizioni e scritture che forse oggi desidera fermarsi in un angolo del suo tempo per mettere un suono definitivo a tante cose. Andrea Barone, salernitano, in questo “Reborn” ci parla di una bellezza di confine, di semplicità, una bellezza che traspare dentro tutte le venature del giorno quotidiano. Un suono pop dai profondi stili internazionali che da Oldfield ad Alan Parson arrivano fin dentro piccolissime tinte eteree di Einaudi e tantissimo altro ancora… noi indaghiamo fin dove possiamo, come se ad un tratto l’acqua alta non facesse più toccare terra.

Noi iniziamo sempre parlando di bellezza. Evitiamo di riferirci per ora alla bellezza estetica, da copertina… per Andrea Barone, cos’è dunque la bellezza?
Da amante anche della lettura mi viene in mente: “la bellezza è verità, la verità è bellezza: questo è tutto ciò che voi sapete in terra e tutto ciò che vi occorre sapere”, di John Keats, oppure “La bellezza salverà il mondo”, di Dostoevskij. Credo sia tutto in queste due frasi. Il bello artistico produce bellezza interiore, genera elevazione dello spirito, e per questo è fondamentale nella crescita individuale e nello sviluppo sano della società. La bellezza è qualcosa che emoziona, che smuove gli animi, il fine ultimo dell’arte, un mezzo per sconfiggere la morte, e quanto di più elevato può raggiungere l’uomo costretto nella sua finitezza.

Lo chiediamo a tutti ma certamente parlare di bellezza non è facile. E tu, da compositore e ricercatore della forma, dove trovi e come sai di averla poi raggiunta?
So di averla raggiunta se c’è qualcuno che apprezza e si emoziona con quello che ho composto, creato, prodotto. La bellezza è certamente qualcosa di soggettivo, il difficile è renderla più universale possibile senza tradire sé stessi. Poi penso che l’ispirazione iniziale contenga già in sé il suo potenziale di bellezza, ma dopo è fondamentale costruire il “vestito” giusto attorno all’idea, all’immagine di bellezza che misteriosamente ti arriva da chissà dove. Quindi la bellezza deve anche essere qualcosa di molto concreto, qualcosa a cui bisogna lavorare duro per ottenerla, altrimenti il bello rimane astratto e resta ininfluente. Come cantava Gaber, “un’idea, finché resta un’idea, è soltanto un’astrazione”.

“Feel the wind” è sicuramente il brano più altro del disco. Citazione dylaniana certamente ma anche quella sospensione alla Alan Parson Project. Cosa significa per te il vento? Che elemento è?
Alan Parson è sicuramente un punto di riferimento per tutto il disco, nel sound ma anche nella struttura. Ad esempio, un suo album che adoro, I Robot, ha, come Reborn, un cantante diverso per ogni canzone. Il vento rappresenta la leggerezza, non in senso di superficialità ma nel senso del “planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”, come diceva Calvino. Il riuscire a godere delle piccole gioie e sensazioni quotidiane anche quando la vita ci fa del male. È un messaggio che rivolgo anche a me stesso, perché non sempre mi riesce, ed è il messaggio che volevo trasmettere con il brano, e spero di esserci riuscito. Ho avuto la fortuna di trovare in Emanuele Durante la vocalità perfetta ad esprimere queste sensazioni e ad interpretare la placida melodia del brano.

Parliamo di suono? Posso dirti che è decisamente inglese?
Sì assolutamente, il suono dei brani credo sia influenzato dal rock inglese, in particolare quello anni ’80 e ’90. Sono cresciuto con il rock angloamericano ed è tra le cose che ascolto ancora adesso, quindi i brani ne sono molto influenzati, e anche la produzione del disco da parte di Enzo Siani si è mossa in questa direzione. La title-track Reborn, interpretata da Frank Ranieri, si ispira a sonorità di gruppi inglesi che amo come Pink Floyd, Radiohead, Porcupine Tree, qualcuno ci ha sentito riferimenti a Peter Gabriel, qualcun altro agli Scorpions, che sono tedeschi ma comunque appartenenti a un certo tipo di rock e di epoca. Mi incuriosisce sempre ascoltare le reazioni delle persone e scoprire i riferimenti, a volte diversi tra loro, che ognuno ritrova nei pezzi. Dal mio punto di vista però c’è anche una forte impronta melodica in tutti i brani, caratteristica tipicamente italiana. La melodia è l’elemento primario, la fonte di tutto, perché parto sempre da essa e poi scrivo testi e arrangiamenti, e allo stesso tempo il fine ultimo della canzone, ciò che più di tutto vorrei arrivasse e rimanesse all’ascoltatore.

A chiusa: di tutte le voci che hai scelto, esiste una combinazione preferita?
Non credo ci sia una combinazione preferita o migliore delle altre, poiché i brani sono anche abbastanza variegati tra di loro, e credo che ognuno di loro abbia richiesto una voce specifica. La ricerca delle voci giuste non è stata facile, ma è stata comunque stimolante, e alla fine credo di aver trovato la voce più adatta per ogni brano. Probabilmente, come mi ha detto qualcuno, l’album ha vagamente la forma di un musical, potrebbe essere effettivamente inteso come una sorta di musical sulla rinascita in cui diversi cantanti si alternano, ognuno col suo ruolo e con la sua vocalità. Mercy, brano heavy rock, è forse quello che più di tutti possiede questo rimando al musical. È interpretato da due cantanti che dialogano tra di loro, Jacopo Di Domenico, che ha il ruolo dell’uomo, e Fabio Manda, che ha il ruolo del dio.