Annette: mix di maledettismo ed espressionismo a suon di musica

La vocazione dell’ex enfant prodige del cinema d’autore francese Leos Carax ad appaiare lo stile antiaccademico dei Giovani Turchi della Nouvelle Vague all’esperienza percettiva dell’espressionismo tedesco, riletto adottando pure gli ammiccanti stilemi noir d’oltreoceano per impedire alla lentezza ipnotica dell’aura contemplativa di tralignare in irrimediabile tedio, prosegue anche con Annette. Il suo primo film in lingua inglese.

I presunti cinephiles capitolini – già andati in brodo di giuggiole nel 2012, allorché a Villa Medici venne proiettato alla presenza dello stesso Carax il grottesco dramedy Tokyo!, girato cinque primavere addietro con l’episodio Merde, incentrato sull’omonimo mostriciattolo stortignaccolo vestito di nero che esce dal nascondiglio sito nel sottosuolo per mangiare gli occhi al prossimo, riproposto in Holy motors insieme alle altre identità assunte a passi di danza dal trasformistico Monsieur Oscar nel cuore delle notti parigine – grideranno senz’alcun dubbio al capolavoro ancor prima di vederlo.

Ad essere precisi gli spettatori in teoria dal palato fine, all’atto pratico avvezzi – giacché fieramente atei – ad eleggere i fallibilissimi registi preferiti a demiurghi, piombando nel ridicolo involontario, erano altresì caduti nell’ammirazione incondizionata all’arrivo della notizia dell’ingresso di Annette in concorso alla settantaquattresima edizione del Festival di Cannes. Ma, al di là dei battimani preventivi di chi accusa i critici professionisti di lesa maestà se muovono appunti ai numi tutelari ritenuti infallibili, ed ergo giudicati oggetto di somma devozione (sic!), Leos Carax per certi versi sembra voler mutare segno. Il tema della solitudine, il ribaltamento delle convenzioni, l’elemento di luce, eletto ad attante introspettivo, restano inalterati. A invertire la rotta è invece il ritmo col passaggio dalla contemplazione all’azione. Scandita dai tratti distintivi del musical. Scelti pure per scandagliare in chiave bizzarra ed erudita, al riparo dai cascami mélo, il delirio d’onnipotenza dello showman comico Henry (Adam Driver). Che seduce il pubblico, lo spinge a partecipare allo spettacolo, alla stregua del compianto e brillante cantante afro-americano Cab Calloway (come non ricordarlo nel ruolo dell’inserviente dell’orfanotrofio Curtis mentre esorta la platea accorsa al concerto dei due storici ospiti dell’istituto ad aumentare palmo a palmo la velocità della strofa “Ari ari ari ha, Heidi heidi heidi hi” in The Blues Brothers di John Landis?), si scalmana sul palco in accappatoio, col cappuccio in testa, come Robert De Niro alias Jack La Motta in Toro scatenato di Martin Scorsese, sostiene di non temere la morte. Di provare simpatia per l’abisso. Secondo Oliver Stone in Wall Street però “l’uomo guarda nell’abisso e nessuno risponde al suo grido ed è solo allora che l’uomo scopre il suo carattere”. Oliver Stone è ritenuto un modesto artigiano dai fautori dei film d’arte. Con Nanni Moretti nelle vesti di capofila. Che in Aprile si rifiuta a priori di vederlo all’opera sul grande schermo. A differenza del collega statunitense. Sempre prodigo di elogi. Viceversa i medesimi censori del Sabato sera, del dopo lavoro, autoproclamati giudici mordendosi la lingua per i veti posti sui giudizi nei confronti dei loro guru, reggono lo strascico a Leos Carax. Considerato un artista. Alieno ai vani coefficienti spettacolari. Che piacciono alle masse dal gusto rozzo. Incolto.

Carax sarebbe quindi una sorta di messia. Che, nel riconvertire in fulgidi ed elitari stimoli intellettuali ed emotivi i numeri musicali, gli assoli comici, da stand-up comedy, il coro, le luci del palcoscenico, formula un giudizio, crea suggestione, trasporta gli spettatori fidelizzati, provvisti, da bravi proseliti, dell’opportuna sensibilità artistica, in un’atmosfera ascetica ma dinamica. Meditativa ma mai uggiosa. Allo scopo di cogliere l’alienazione dell’uomo di spettacolo che guarda nell’abisso esortando al contempo i fan a partecipare attivamente allo show. L’opposto quindi di Stone. Votato all’immediatezza espressiva. Estraneo alle sottigliezze. Alla stilizzazione geometrica. All’incandescenza provocatoria dei fuoriclasse della cinepresa tipo Lars von Trier. Ed ergo intento ad accorpare la varietà dell’azione al messaggio da lanciare in Wall Street: guardare nell’abisso, inteso non come la commare secca, o morte che dir si voglia, ma come il delirio d’onnipotenza d’un broker incline al guadagno a ogni costo, corrisponde, a lungo andare, al cupio dissolvi. Distogliere lo sguardo dall’abisso significa quindi preferire l’amor vitae. Sulla scorta dell’idonea maturazione del carattere. Seppur in extremis (meglio tardi che mai). Leos Carax pare prendere le distanze, viceversa, dall’opera a tesi. Però dapprincipio esibisce il quadro idilliaco dello showman. Dal palco al versante privato. Nell’alcova. Con l’amata Ann (Marion Cotillard). Nel sesso. Nel gioco. Nel solletico ai piedi dell’avvenente ed elegante partner Ann. Che canta la lirica. Sorride come la Gioconda. Trascina il coniuge nei prati. A contatto con l’ordine naturale delle cose. Nella seconda parte Carax espone il rovescio della medaglia. Ribaltando, anziché le prospettive banali, l’amor vitae in cupio dissolvi. L’amore in odio. C’è qualcosa di più banale? La padronanza delle luci tanto luccicanti del palcoscenico e dei flash dei fotografi, quanto di quelle oblique dei consorzi domestici in chiaroscuro – meno efficaci comunque rispetto alla scelta luministica mandata ad effetto in Holy motors con l’emissione dei bagliori sferici riverberati dalle automobili nel garage dove il rapporto con l’improbabile accresce le prospettive delle dinamiche interiori – non basta a garantire ad Annette una patente di nobiltà. Ed ergo un decoro, uno status, un merito superiori rispetto ai pregi concreti.

Il sogno che diventa incubo, con la nascita di una bimba dall’aspetto mostruoso, costeggia diverse banalità. L’abisso, dunque, invece di coincidere davvero con l’infinito, con l’ignoto, con l’esistenza coniugata all’imperfetto, rappresenta anche in questo caso l’ambizione fuori misura. A cui Henry paga dazio. Alienandosi le simpatie del pubblico, una volta devoto. La ribellione dei fedeli seguaci, accostata alla rivolta degli schiavi, secondo il crescendo ritmico concepito dalla sperimentazione, tenta pedissequamente di replicare i vezzi della Nouvelle Vague. Nella misura in cui la trasformazione di Annette in fenomeno da baraccone, il baratro imboccato in una notte tempestosa, curiosamente simile, se non identica, all’effigie del climax conclusivo concepito da Martin Scorsese (guarda caso l’autore di Toro scatenato) in Cape Fear – Il promontorio della paura, la piega degli emblematici eventi riciclano gli strumenti usati dai migliori antesignani. Specie Michael Powell ed Emeric Pressburger in Scala al paradiso e Scarpette rosse. Le immancabili postille noir, capaci in Holy motors di trascendere la mera suggestione col personaggio interpretato da Michel Piccoli che richiama, oltre al favore delle tenebre, la bellezza del cinema di pensiero ed emozione al pari d’un irrinunciabile ed eterno panegirico, divengono dei pretestuosi riempitivi aggiunti. Per gli ennesimi cuori nella tormenta, per i freaks, per i plagi camuffati da omaggi, per le idee prese in prestito, per il Delitto e castigo coreografato ad arte. Illuminato ad hoc. Inquadrato in modo cool. Ma privo del senso di caducità dell’arte autentica. Della saldezza del carattere d’ingegno creativo di Lars von Trier che in Dancer in the dark rilegge Tutti insieme appassionatamente per spingere il pubblico a entrare in empatia con una profuga semi-cieca che sogna ad occhi (semi) aperti, brancola nel buio e cade nel delitto per legittima difesa. A quel punto sarebbe stato meglio applicare la formula dell’artigiano Oliver Stone in Wall Street. Invece, il messaggio visivo a suon di musica imperante in Annette provoca persino qualche sbadiglio. La meta visionaria resta pertanto impossibile da raggiungere. Peccato solo per il pianista comico Simon Helberg. Che nei panni del direttore d’orchestra plagiato da Henry fornisce una prova melodrammatica degna di nota. Non abbastanza però, nella poliedrica palingenesi, per attribuire all’accostamento degli echi, dei controechi, delle scopiazzate malcelate alla tesi superficiale il profondo colpo d’ala degli autori veri e propri.

 

 

Massimiliano Serriello