Emuli sul grande schermo dell’ingegnoso ed erudito Michelangelo Antonioni, al quale hanno dedicato oltre ad alcune videoinstallazioni sulla base dei movie moment più memorabili pure il loro primo lungometraggio imperniato sul tema della mancanza e sull’ordine naturale delle cose assurto a probo antidoto contro lo spettro dell’alienazione, gli ambiziosi registi sperimentali Nicolò Massazza e Iacopo Bedogni, denominati Masbedo, battono sullo stesso chiodo conferendo ad Arsa, apologo sull’elaborazione del lutto connessa al carattere d’ingegno creativo dell’arte, un senso polifonico di emozioni che traggono linfa dalla capacità di razionalizzare l’assurdo. Riscontrabile nella dimensione romantica ed ergo poetica dell’egemonia dello spirito sulla materia.

Occorre però comprendere se Arsa, a partire dall’incipit che mostra l’orfana adolescente che dà il titolo al film mentre interagisce sulla spiaggia dell’isola senza nome eletta ad attante narrativo coi giochi dei bimbi privi di malizia e ricchi quindi di fantasia lasciando l’impronta della mano sul ciottolo attiguo, riesca davvero ad amalgamare gli stilemi della videoarte, di cui i Masbedo sono alfieri sinceri ed entusiasti sin dagli esordi, alla geografia emozionale contemplata in ambito cinematografico.

La scelta di anteporre all’analisi psicologica degli stati d’animo sconvolti dalla perdita, desiderosi di raggiungere perciò una forma stabile d’equilibrio al riparo dall’orrore del dolore, un timbro apparentemente ellittico, contraddistinto dalla contemplazione lirica del vuoto dell’anima da riempire con la coinvolgente interazione tra habitat panteisti ed esseri umani, paga subito dazio alla pigrizia delle idee prese in prestito. Ad Antonioni soprattutto. Ma altresì a Terrence Malick, Wim Wenders e Apichatpong Weerasethakul. Pure le frequenti riprese subacquee, con Arsa che s’immerge per recuperare dal fondo del mare la bambola caduta di mano a una dolce ed eterea pupa, non appaiono esenti dall’impasse dei plagi camuffati da omaggi. Ad alzare l’asticella ed eludere così lo scoglio dei nani sulle spalle dei giganti dovrebbe intervenire la virtù tipica della videoarte nel sottrarre qualsivoglia esercizio di stile alla spasmodica ricerca della perfezione. Ricavando proprio dall’umana imperfezione delle assonanze e delle dissonanze rievocatrici lo stimolo ad animare lo spessore identitario dell’isola aliena al cinismo moderno. Quando Arsa costruisce un giocattolo alternativo alla bambola sprofondata col pongo, in ricordo del padre scultore scomparso, l’innesto frammentario ed evocativo dei flashback contribuisce ad accrescere invece l’insofferenza, finanche degli spettatori più propensi ad accostare l’armonia degli affetti a una condizione trascendentale sia della memoria sia del paesaggio riflessivo ivi congiunto, per la direzione pseudo-animistica. Sprovvista, tanto nella prassi quanto nello spirito, degli elaborati ed empatici movimenti di macchina in grado di spingere il pubblico ad acquisire uno sguardo maggiormente critico sul senso d’immersione ed emersione.

Ma cosa emerge in poche parole da Arsa? Che le opere scultoriche, secondo il mecenate impersonato dal bravo Tommaso Ragno, avvezzo a ridimensionare lo slancio artistico del babbo di Arsa, rappresentano solo ed esclusivamente uno specchio per le allodole dei clienti paganti inclini al ridicolo involontario. Che il lascito genitoriale, fondato sull’allergia ai compromessi imposti dal vil denaro ed ergo dall’ingannevole progresso, subisce una brusca battuta d’arresto quando sull’isola arrivano degli studenti di cinema desiderosi di distrarre l’amico anch’egli alle prese con l’elaborazione del lutto per la prematura dipartita del papà. Che immergersi negli abissi alla stregua della permalosa solitudine, ai limiti dell’alienazione, costituisce al contempo una sfida colma di fascino e un pericolo che può rivelarsi fatale. L’insieme dei primi piani stranianti, degli studenti in festa di sera convertiti a sagome nere dall’attitudine a scrivere con la luce dell’attenta fotografia, delle inquadrature in profondità di campo, dispiegate allo scopo di garantire al tono dominante – concernente il bisogno di colmare il vuoto dovuto al lutto con la tendenza a infrangere le regole della società moderna – l’elegiaca partecipazione d’un panorama così lontano così vicino, per dirlo alla Wim Wenders, che condiziona persino i modi di reagire alla concatenazione dei vincoli di sangue recisi in apparenza dalla morte con la forza significante dei legami di suolo, resta piuttosto in superficie. La schiera frammentaria di scene-madri, convincenti nell’ambito a sé stante della videoarte, risulta poco persuasiva, specie se inserita in modo pretestuoso, nella Settima arte. Al coinvolgimento estetico ed emotivo degli autori, esperti nel proprio campo di pertinenza ma ancora acerbi all’interno della differente fabbrica dei sogni, non coincide il coinvolgimento estetico ed emotivo di un’ampia platea.

Né serve il controcampo positivo dell’elaborazione del lutto che veicola la tensione in perenne divenire a culminare nel ritrovamento dal simbolico fondo marittimo d’una statua delegata a penetrare in un altro mondo fitto di echi ancestrali ed ermetici. Le dimensioni temporali e spaziali, che di regola aiutano i fruitori della videoarte ad afferrare le verità nascoste riguardanti i massimi sistemi, tralignano in un deposito monotono d’insistiti déjà vu ed empiti esistenziali da strapazzo. Alieni alla febbrile vitalità delle opere realmente immersive che privilegiano a una morale della favola stringi stringi trita e ritrita l’esito allettante d’un’ampia ed emblematica ricerca dell’alterità. Di qualcosa, vale a dire, che esula dall’ordinario. Al contrario della prova scolastica di Gaia Zohar Martinucci. Che nel ruolo dell’introversa scultrice in erba avversa pure al richiamo dei sensi scimmiotta alla bell’e meglio le ammalianti e ieratiche creature muliebri dei capolavori del cinema muto. Gli eloquenti silenzi di Arsa non risultano comunque sufficienti a compensare la scontatezza delle modalità esplicative dei dialoghi didascalici e ad addentrarsi in un territorio sul serio originale. Scevro cioè dall’azzardo di attribuire alla programmatica dematerializzazione della visione l’anelito dell’autentica poesia. Conforme all’egemonia dello spirito sulla materia. Distante mille miglia dagli scopiazzamenti spacciati per ragguagli percettivi.


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