Arte, le amanti di Raffaello nei volti enigmatici della “Fornarina” e del “Trionfo di Galatea”

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Tra le opere indubbiamente più affascinanti di Raffaello Sanzio da Urbino (1483 – 1520), un posto di rilievo è occupato dalla celebre “Fornarina”, un olio su tavola dipinto tra il 1518 e il 1519 e attualmente conservato nella Galleria Nazionale di Arte Antica in Palazzo Barberini a Roma, trasferito nella collezione tra il 1960 e il 1970.

Secondo una nota leggenda il dipinto, forse terminato da Giulio Romano, venne trovato ai piedi del suo letto di morte, insieme alla “Trasfigurazione”, dapprima realizzata per la Chiesa di San Pietro in Montorio ed ora esposta nella Pinacoteca Vaticana.

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L’identità della modella appare ancora oggi molto controversa. Alcune somiglianze del volto fanno supporre che la stessa donna fu utilizzata per altri dipinti come la “Velata” e la “Madonna Sistina”. Per molti storici dell’arte prevale l’identificazione con Margherita Luti, figlia di Francesco Senese, un fornaio che viveva in via di Santa Dorotea, nel quartiere di Trastevere, dalla cui professione deriverebbe il nome. Probabilmente fu una delle amanti di Raffaello e c’è chi sospetta che i due si fossero sposati in gran segreto e che la donna avesse scelto di prendere i voti dopo la prematura scomparsa del pittore. Un documento del 1520 proverebbe infatti il suo ingresso nel monastero di Sant’Apollonia a Roma.

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Esattamente come la “Gioconda” di Leonardo, anche la “Fornarina” è una figura fantasma nella storia dell’arte. Negli ultimi anni ha trovato credito l’ipotesi che possa invece trattarsi di Beatrice Ferraresi, una cortigiana molto nota all’epoca. La sua posa seducente, ritratta di tre quarti con i seni scoperti, un velo retto dalla mano destra ed un manto rosso a coprire le gambe, si addicono molto di più ad una donna abituata a mostrare le sue grazie, piuttosto che ad una fanciulla da marito. La questione è ancora molto dibattuta e lontana da qualsiasi soluzione. L’unica cosa certa è l’amore di Raffaello per la protagonista della sua opera, così intenso da spingerlo ad incidere il proprio nome nell’armilla che cinge il braccio della ragazza. Si tratta di un insolito modo di lasciare la propria firma oppure il segnale che quella donna appartiene solo ed esclusivamente a lui?

A complicare il tutto, durante un recente restauro, le indagini radiologiche hanno messo in evidenza un anello sull’anulare sinistro. Una fedina dapprima ritratta e poi cancellata, come se si fosse pentito di un dettaglio così compromettente. Qualche critico d’arte ha addirittura ipotizzato che nel gioiello fosse incastonato il monogramma dell’artista!

L’unico dato certo è che l’opera fu realizzata in due riprese: in un primo momento sullo sfondo doveva esserci un paesaggio di ispirazione leonardesca, al pari delle tante Madonne che Raffaello realizzò nel suo periodo fiorentino. Nessuno sa perchè poi il Sanzio, o qualche suo allievo, abbia deciso di coprirlo con uno sfondo nero, dove si riesce a distinguere un cespuglio di mirto, pianta sacra a Venere e un ramo di mela cotogna, forse associata al pomo della discordia.

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L’abbigliamento è ridotto all’essenziale: un panno avvolge i capelli come un turbante ed è tenuto da un rubino, sormontato da uno zaffiro o uno smeraldo, che termina con una perla, trattenuta da un filo d’oro: una moda abbastanza comune all’epoca. Il gioiello è identico a quello che compare in un altro ritratto, attribuito a Raffaello, la cosiddetta “Velata” (1515), conservata nella Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze, forse ad indicare la stessa persona.

Raffaello amò la “Fornarina al pari di Imperia Cognati, la cortigiana più famosa e desiderata del Cinquecento, tanto che al suo funerale, celebrato nella Chiesa di Sant’Agostino, partecipò mezza curia pontificia e Papa della Rovere guidò in lutto il corteo funebre. Tra i suoi clienti annoverava diversi cardinali e papi celebri come Giulio II, per il quale il Sanzio dipinse la Stanza della Segnatura che, in origine, doveva essere la sede della sua biblioteca e Agostino Chigi, ricchissimo banchiere dei papi Alessandro VI e Leone X, nonchè mecenate del pittore. Proprio per il Chigi Raffaello decorò parti di una meravigliosa villa in via della Lungara, ancora oggi visitabile, detta “Villa Farnesina”, dove alcuni identificherebbero il volto della “Galatea” con la celebre prostituta.

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Non è nota la data di esecuzione dell’affresco (probabilmente tra il 1511 e il 1512). Solo recentemente, Claudio Strinati, ha richiamato l’attenzione su certe “durezze”, tipiche del periodo fiorentino del Sanzio, proponendo dunque di collocarlo a breve distanza dal suo arrivo nella città papale, avvenuto verso la fine del 1508.

La bella Galatea avanza su una conchiglia trainata da delfini ed è circondata da nereidi e tritoni, mentre, in un cielo luminoso, alcuni amorini sono intenti a scoccare i loro dardi. La ninfa, secondo una delle redazioni del mito, ispirata a una “stanza” della “Giostra” di Angelo Poliziano, che, a sua volta, traeva spunto da Filostrato, si era negata a Polifemo e si struggeva di nostalgia per il pastore Aci, ucciso per gelosia dal ciclope. Tuttavia, la raffigurazione raffaellesca non esclude una conversione all’amore per Polifemo che compare nel riquadro a fianco, realizzato qualche anno dopo, come ci attesta il Vasari, da Sebastiano del Piombo.

Galatea alluderebbe all’anima che aspira a ricongiungersi con Dio. Infatti tutto il dipinto va letto in chiave neoplatonica: i tritoni e le nereidi, metà umani e metà ferini, simboleggiano l’uomo che, come affermava Marsilio Ficino, si trova nel mezzo tra la condizione animale e quella divina. La ninfa dunque tende all’amore celeste, che differisce da quello terrestre, irrazionale e “cieco”. Questo spiegherebbe perchè gli amorini non sono bendati.

Al di là della ricerca della loro vera o presunta identità, la “Galatea” e la “Fornarina” restano due bellezze ideali. Dei tipici volti rinascimentali che fanno pensare a donne molto care a Raffaello.

Emanuele Pecoraro