Baby gang: giovani, romani e disadattati

È il regista stesso Stefano Calvagna a vestire i panni dello psichiatra carcerario che, impegnato in una conversazione con il giovane romano Daniele Lelli, apre la circa ora e venti di visione che costituisce Baby gang, assolutamente da non confondere con l’omonimo lungometraggio diretto nel 1992 da Salvatore Piscicelli.

Giovane che, insieme ai coetanei Raffaele Sola, Gianluca Barone, Francesco Lisandrelli e Gianmarco Malizia, apprendiamo attraverso un lungo flashback essere dedito ad attività tutt’altro che lecite, con l’unico fine di fare soldi in poco tempo.

Attività illecite che, senza escludere rapine e violente risse, spaziano dalla clonazione delle carte di credito allo sfruttamento della prostituzione minorile, testimoniando ancora una volta la notevole attenzione che l’autore de L’uomo spezzato e Il peso dell’aria presta nei confronti dei tanti fatti di cronaca tricolori, mai nascosta fin dai tempi del suo esordio dietro la macchina da presa Senza paura, riguardante la famigerata “banda del taglierino”.

Ed è proprio la crudezza attraverso cui viene affrontata la chiacchieratissima – e mal sfruttata all’interno di serie tv d’inizio XXI secolo – tematica delle baby squillo a rivelare ulteriormente la capacità di Calvagna di essere efficace narratore in fotogrammi della delinquenza italiana e dei disadattati che la rappresentano, un po’ come l’indimenticato Pier Paolo Pasolini lo fu ai tempi di Accattone e dei suoi capolavori neorealisti in bianco e nero.

Tanto più che stavolta i ragazzi protagonisti – comprendenti anche le controparti femminili Domiziana Mocci, Chiara De Angelis, Giulia Sauro e Sabrina Sotiryiadi – sono stati presi direttamente dalla strada e del tutto privi di esperienze sul set, qui impiegati nella recitazione senza avere un copione, ma seguendo giorno per giorno una storyline dettata dal regista con precise indicazioni.

Mentre, al di là della ex gieffina Veronica Graf coinvolta in una esilarante parentesi nel ruolo di se stessa, sono le già collaudate e valide facce calvagnane di Claudio Vanni, Andrea Autullo e David Capoccetti a rappresentare la malavita “adulta” in quello che si presenta in qualità di veritiero ritratto da schermo di tanto squallore che attanaglia spesso lo stivale più famoso del globo.

Un ritratto che, con abbondanza di riprese eseguite tramite camera a mano per far fronte in maniera evidente all’esiguità del budget, evita abilmente i tempi morti grazie alla scelta di costruirsi sulla sequela di interessanti e coinvolgenti situazioni… fino alle ultime immagini commentate dalla sempreverde Tutto il resto è noia di Franco Califano, che va ad aggiungere un tocco d’indispensabile poesia all’ennesimo miracolo portato a compimento da un prolifico cineasta la cui carriera si è sviluppata per intero senza accedere ad alcun finanziamento statale destinato alla Settima arte.

Perché, non avendo nulla da invidiare ad analoghe – per quanto riguarda il genere – produzioni italiane delle major, Baby gang non può essere considerato altro che un piccolo miracolo.

 

 

Francesco Lomuscio