È dai tempi del bellissimo apologo erotico sulla partizione tra interiorità ed esteriorità Eyes wide shut di Stanley Kubrick, con l’analisi fenomenologica veicolata nella condizione di scacco dei congressi carnali, che i personaggi interpretati dall’avvenente e talentuosa diva australiana Nicole Kidman pagano dazio, a dispetto dell’apparente aplomb, al sentimento d’insicurezza dovuto allo sbalorditivo richiamo dei sensi.
Non fa quindi eccezione l’ultima, strombazzata, fatica dietro la macchina da presa dell’eclettica attrice e regista olandese Halina Reijn, Babygirl, in cui riecheggia, dai lussuosi uffici alle camere d’albergo site nella Grande Mela, l’inobliabile ed emblematica esclamazione, volta ad alimentare l’immaginario della fabbrica dei sogni, snudandone anche se non soprattutto gli incubi nascosti, della signora Alice Harford alias Nicole Kidman mandando a carte quarantotto ogni freno inibitorio sotto l’effetto dell’hashish nel culminante capolavoro girato dal compianto ed estroso Kubrick: “Se voi uomini solo sapeste”.

Il ruolo del bell’addormentato, ribaltando la convenzione che lo lega allo status dell’amante latino adorato dalle donne in prevalenza anglosassoni, spetta, anziché all’ex coniuge Tom Cruise, ad Antonio Banderas. Piuttosto a suo agio, ciò nondimeno, nelle vesti del regista teatrale Jacob. Troppo impegnato ad allestire la millesima pièce con le eroine muliebri sul palco a raccogliere gli applausi per capire i segnali lanciati nell’intimità dalla consorte Romy. Che, non raggiungendo l’orgasmo con il padre delle sue creature, va su di giri per il corteggiamento, basato sugli eloquenti silenzi, del giovane stagista Samuel. Dapprincipio ridimensionato sulla scorta dell’improntitudine della donna di potere, amministratrice delegata con il privilegio di rappresentare lo zoccolo duro del consiglio in un’azienda di robotica d’alto rango; passato nello spazio d’un mattino dalla parte dell’avventizio spasimante, con la goccia al naso, a quella del dominatore. Forte del vantaggio psicologico esercitato sull’eccitazione mentale ed emotiva dell’ormai instabile working woman. Con la tempesta di stranianti impulsi ed estrogeni impazziti, gli indugi, il tira e molla, i fattori chimici e fisici in preda alla vertigine causata dal manipolatore nel pieno dell’età verde. Entusiasta di stuzzicare il gusto, l’olfatto, gli odori, il tatto, insieme alla stimolazione clitoridea rimasta rigorosamente fuori campo, per dare l’input alla mera rivalsa dell’inversione di tendenza. Per cui a vedersela con gli esami, d’ascendenza edoardiana, che non finiscono mai è la classe dirigente. La sensazione d’infecondo déjà vu, nel quale si annida la pigrizia delle idee prese in prestito dai nani sulle spalle dei giganti, pervade l’intera trama.

Dall’alcova dove ogni connotazione sociale perde d’importanza che richiama alla mente Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci alla fantasia contorta sotto le coperte di notte, associando la libidine a una fame da lupi, nascosta di giorno nella stanza dei bottoni sulla falsariga di Adrian Lyne in Nove settimane e ½. Tenendo altresì nella massima considerazione in veste di archetipo da replicare, apponendo le interpolazioni di rito, con buona pace del latitante carattere d’ingegno creativo, L’amore infedele – Unfaithful, sempre del citato Lyne. Contraddetto unicamente dal marito raggirato che, a differenza dell’indispettito consorte col volto stupito di Richard Gere, non spedisce il rivale con maggior sex appeal a ingrossare i cavoli. Bensì soccombe in maniera comica al termine d’un corpo a corpo ai limiti del deleterio ridicolo involontario. Cosa resta dunque della farina del sacco dell’involuta autrice che almeno nelle opere precedenti in cabina di regìa era riuscita a farsi prendere sul serio? Forse l’atmosfera talora surreale messa in scena nella previa comedy horror Bodies bodies bodies. Con il linguaggio del corpo legato a filo doppio al giallo deduttivo e alla lente analizzatrice dei falsi pudori sugli scudi. Nel velleitario tentativo di acquisire la forza esplosiva dell’affresco provocatorio. Certamente manca all’appello la coerenza stilistica esibita da una Halina Reijn ai tempi ispirata nel film d’esordio Instinct – Desiderio pericoloso. Palesando di padroneggiare già i ferri del mestiere nel convertire le note desolanti dello sconforto di circostanza nel morbido ed empatico scavo introspettivo d’una psicologa di professione vittima dell’ennesimo predone.

Il “thrill” inteso come il brivido innescato dai piaceri della carne coinvolti nel subdolo controcampo dei crudeli giochi di dominio evapora nella sommaria descrizione ambientale. Nell’effigie superficiale della metropoli newyorchese. Nella scontata inquadratura dall’alto della famigliola felice a rischio a ridosso del labile eden costituito dalla casa in campagna con la piscina. Nelle reazioni mimiche sopra le righe dinanzi ai palpiti del godimento e al soprassalto della vergogna. Certi toni tambureggianti, dettati dalle composite ed eclatanti musiche intente ad accompagnare la stonata liaison lungo l’itinerario dell’arcinota perdizione, non fanno altro che chiarire ed esacerbare l’intarsio d’empiti di frustrazione e dinamismo dell’azione perentoria. Votata alle situazioni sulla carta intriganti e addirittura scabrose. All’atto pratico, nella loro patetica sfrenatezza frammista ad alcuni interludi meditabondi del sabato sera, colpevoli di trascinare l’assunto in una ridda d’inutili baggianate. Al cui confronto Body of evidence di Uli Edel, brutta copia del campione d’incassi dello scorso secolo Basic instinct di Paul Verhoeven, sembra un incrocio tra Shame dell’arguto Steve McQueen ed Ecco l’impero dei sensi del maestro giapponese Nagisa Ōshima. Lo certifica la prova da pernacchie dell’intero cast. Con l’interprete britannico Harris Dickinson, orfano nei panni dello stagista yankee vanesio ed erotomane della misurata psicotecnica recitativa esibita nella chicca indie Beach Rats, meritevole dell’irridente Razzie Award più del gigionesco Joaquin Phoenix in Joker: Folie à deux. L’epilogo di Babygirl risulta ulteriormente svilito dallo stolido montaggio alternato che giustappone l’ex manipolata mentre recupera il terreno perso col comprensivo regista teatrale in Occidente all’ex manipolatore promosso sul campo in Oriente. Nel regno del Sol Levante e della sacrosanta egemonia del nobile spirito sulla rozza materia. Condurre in porto un guazzabuglio peggio di così, pur menzionando qualche voluta piega umoristica nei calcolati scompensi dello stantio balletto di Thanatos ed Eros, è davvero una mission impossible.
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