Cimentandosi sia dietro sia davanti l’ardua macchina da presa per interpretare l’audace Leonhard Seppala governando al contempo gli elementi espressivi necessari a conferire l’idoneo pathos allo svolgimento dell’azione drammatica, l’eclettico Brian Presley tenta con Balto e Togo – La leggenda di tenere tutti gli spettatori col fiato in gola.
Se in parte ci riesce, a dispetto della prevedibilità di alcuni passaggi narrativi che palesano l’assenza di una suspense canonica, il merito risiede nell’inusitata scelta di ricorrere all’austero lavoro di sottrazione in un film per famiglie. L’inizio sembra invece sublimarne le convenzioni. Con l’immancabile voice over, attinta senz’estro a quella dell’indiano americano Colpo di Pugnale in Vento di passioni, l’immagine alla National Geographic della regione selvaggia dell’Alaska, meta dei cercatori d’oro, e i cascami retorici ed esplicativi tipici d’ogni ordinario spettacolo dispiegato a suon di musica. Alieno, quindi, ai sovrani silenzi carichi di senso.
La penuria degli stilemi della geografia emozionale, che avrebbero garantito una notevole forza significante al territorio eletto a location, è compensata alla bell’e meglio dal richiamo al tenero western revisionista Balla coi lupi. Il colpo di fulmine per l’avvenente ed eterea nativa Kiana, quantunque risulti troppo spiccio per riuscire ad aggiungere qualche convincente sfumatura psicologica ai risaputi accenti romantici ed evocativi, coglie lo stesso nel segno. In virtù dell’intelligente sensibilità delle inquadrature. Che passano dai primi piani ai campi lunghi sulla scorta di un’apprezzabile maturità professionale. Attenta, se non all’approfondimento degli spunti antropologici ed etnografici, almeno alla risorsa spettacolare garantita dagli spazi panteisti che celebrano il trionfo dei sentimenti. Insieme all’ordine naturale delle cose. Dopo la mesta dipartita della giovane e sfortuna sposa, che spinge l’immalinconito vedovo a vegliare instancabilmente sull’incantevole figlioletta, prendono piede i tratti distintivi del cinema d’atmosfera. La descrizione della piccola comunità di Nome, a un tiro di schioppo dal gelido Mare di Bering, del rito natalizio in chiesa, delle intese solenni, che testimoniano la bonomia dell’indispensabile fede in ciò che non si può vedere, ma si sente nell’anima, non richiede un’energia inconsueta. Le basta l’intrinseco contenuto umanitario. Anteposto all’inopportuna alterigia dell’estro formale. A rendere avvincente la vicenda provvede l’inno alla ferrea volontà che sconfigge gli schiaffi del destino.
Ad alzare la bandiera bianca, infatti, il pur laconico Leonhard non ci pensa nemmeno. Sebbene l’alacre Brian Presley stenti a imprimergli la virtù di parlare con gli occhi, ad appannaggio della dotta sottorecitazione padroneggiata da mostri sacri come Dirk Bogarde, il personaggio si affranca ugualmente dagli infecondi cliché sugli eroi in lotta con la furia delle intemperie. Mentre l’uso insistito dello slow-motion, anziché porre nel giusto risalto gli scompensi comportati dalla punta di spina del dolore rispetto all’alchimia dello spirito avventuroso, è una componente manieristica, ed ergo superflua, le ragioni della poesia emergono in maniera persuasiva grazie alla misurata cura dei dettagli. L’interazione tra garbati semitoni ed elementi ambientali a sostegno dell’attendibilità storica, coi primordi del secolo breve racchiusi nella linea classica del meticoloso racconto morale, diviene il centro nevralgico di Balto e Togo – La leggenda. La rievocazione dell’epoca dei cosiddetti mushers, i conducenti delle mute di cani da slitta disposti ad affrontare prove ai limiti dell’impossibile, delle spedizioni al Polo Nord, della celebre corsa del siero, che nel 1926 salvò l’intero villaggio da un’atroce epidemia, manca d’una tecnica di ripresa ricercata. Capace d’impreziosire l’intento documentaristico con l’ambìta aura contemplativa. Il mix di suoni intradiegetici ed extradiegetici, con l’egemonia della sovrabbondante retorica, certifica l’inane ripiego nel poeticismo. Un deludente sostituto esacerbato dal persistere in suggestioni figurative che non riverberano mai il turbinio degli stati d’animo. Messi a dura prova dalla “soluzione da età della pietra” dovuta all’impasse degli aerei reclutati per reperire l’indispensabile siero.
Senza ricerche stilistiche votate all’arguta antiretorica, al fine di connettere l’invisibile togliendo al visibile, sull’esempio dell’austero ed estroso Bruno Dumont, il valore dell’ingegno si prospettava alla stregua d’una mera utopia. Invece l’abile montaggio alternato, confrontando l’altalena di terribile sconforto ed estrema speranza del dottore in attesa dell’antidoto insieme alle peripezie dell’intrepida staffetta, con i siberian husky fronteggiatori dei colpi di spillo del Generale Inverno, antepone all’agilità nel ritmo l’analisi delle pieghe introspettive. L’inopinata rinuncia ai coefficienti spettacolari, che privilegiano il mordente gradito agli spettatori allergici ai dispendi di fosforo, trascende gli ammiccamenti cromatici della fotografia, palesa finezze e slanci impensabili dapprincipio ed estrae l’asso nella manica in zona Cesarini. Lo stoicismo del cane da slitta Togo resta così avvolto nell’indeterminatezza della bufera: prevale l’immaginazione nell’alternanza d’interni copiosi ed esterni offuscati dal ciclone di neve. Alla glaciale aridità climatica, a sessanta gradi sotto zero, corrisponde, di contro, il calore dell’inventiva. L’esito felice della spedizione, lungi dal voler penetrare il mistero dell’esistenza in lotta col fattore dell’immane rischio connesso all’habitat selvaggio, beneficia del controcanto delle note intimiste. L’intenso ed esperto Treat Williams spicca sull’intero cast di Balto e Togo – La leggenda nel ruolo del dottore che innesca il processo d’identificazione in qualsivoglia tipo di pubblico. Compreso chi ama gli animali al servizio di un epilogo che, nonostante costeggi soltanto la densità lirica delle pellicole di Robert J. Flaherty, intenerisce e persino stupisce. Non è affatto poco.
Massimiliano Serriello
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