Bar Giuseppe: l’accoglienza sulle orme di Ermanno Olmi

L’uscita in streaming, su RaiPlay, di Bar Giuseppe, il nuovo film dell’ambizioso ed esperto Giulio Base, spiana la strada ad una visione quantomeno interessante. Gridare al capolavoro resta un esercizio abusato al pari delle stroncature critiche consumate il più delle volte ai danni dei registi underground senza santi in paradiso.

Dopo Magari, apologo sul valore della famiglia diretto da Ginevra Elkann sulla falsariga della trita e ritrita spettacolarizzazione dei semitoni intimisti, Bar Giuseppe rappresenta un’apprezzabile variante. L’aspetto moralistico ravvisabile nella predica sull’accoglienza nei confronti degli immigrati cadrebbe nell’intoppo delle superflue, quando non deleterie componenti manieristiche se la ricerca d’identità legata al senso di appartenenza fosse un elemento di mero contorno. Giulio Base, attore dal volto non privo di prestanza drammatica, ma alieno ad autentici slanci colmi di pathos, in cabina di regìa acquista certamente maggior verve. A differenza della fatica precedente, Il banchiere anarchico, che conferma come l’universo della finanza, con la sola eccezione di Wall Street, e l’affascinante gioco del calcio – a parte Fuga per la vittoria – risultino poco compatibili con la fabbrica dei sogni, Bar Giuseppe ne palesa la capacità di trarre partito da diversi numi tutelari.

Molti suoi colleghi parlano di trasmissione di pensiero allorché emerge un rimando ad alcuni antesignani. L’atmosfera dell’incipit, con l’inquadratura statica in campo lungo della stazione di servizio e il bar del titolo teatro dell’improvvisa morte dell’accigliato protagonista, richiama alla mente Garage di Lenny Abrahamson. Non un peso massimo del cinema in grado di fare il bello e il cattivo tempo. Casomai una chicca che riesce ad appaiare l’alienazione cara ad Antonioni e il carattere di presa immediata delle deliziose commedie con don Camillo mattatore e il territorio della Bassa reggiana nelle vesti d’indubbio deus ex machina. Chi se la comanda, per così dire, in Bar Giuseppe? Il proprietario, un vedovo del Nord d’Italia trapiantato nella nemmeno troppo ridente Bitonto? La risposta è affermativa in ragione a primo acchito dello spettacolo di secondo piano della recitazione. Anzi dell’arguta ed empatica sotto-recitazione di Ivano Marescotti, che, dopo il personaggio visionario ed emozionante interpretato in Tutto liscio! dell’estroso e affabile regista fiorentino Igor Maltagliati, fornisce un’ulteriore prova degna di allori. Anche se non arriveranno, giacché il diritto al merito c’entra poco con i parametri di giudizio che determinano l’assegnamento dei premi più ambìti in quest’ambiente, il passaggio dal carattere luminoso del padre di Tutto liscio! ai silenzi carichi di significato dell’ombroso Giuseppe coglie lo stesso nel segno. Chi si attende un accostamento graduale alla bontà di cuore, partendo dalla sfiducia di un cuore indurito sull’esempio del dramedy Qualcosa è cambiato di James L. Brooks, è completamente fuori strada: al posto dell’erudito istrionismo recitativo dell’idolatrato Jack Nicholson e delle componenti manieristiche di un autore che conosce bene i propri polli, ed ergo sa levargli la sete col prosciutto, in Bar Giuseppe il cambiamento passa attraverso l’idoneo lavoro di sottrazione.

Giulio Base non se ne serve in modo intellettuale. Ciò può essere un pregio e un difetto secondo i punti di vista. La profondità di campo all’interno del bar, in cui il vedovo col nome del padre per eccellenza tiene a bada un cliente nerboruto a cui prudono le mani, per via della presenza in eccesso al tavolino a fianco degli africani di turno, sembra decisa ad anteporre all’astrazione dell’aura contemplativa, appannaggio dei pochi poeti del grande schermo e miraggio dei molti velleitari dalla piccola fantasia, il thrill. Inteso come brivido. Gli avventori vecchietti che interrompono per un attimo il borbottio con le carte in mano, senza nulla concedere ad azzardi di alcun tipo, trasforma un motivo d’insicurezza in una certezza. Quasi una premonizione di ciò che accadrà di lì a poco. La parte meno convincente dell’intero ambaradan, che prende una piega abbastanza palese, è ravvisabile nelle file e negli assembramenti fuori dal bar coi disoccupati in cerca di assunzione. Maltagliati in Tutto liscio! era riuscito ad avvicinarsi all’intensa leggerezza di Alan Parker in The Commitments per svelare cosa succede dietro le quinte della speranza senza mai pagare dazio allo scoglio dell’ingegno attinto ai numi tutelari per celare evidenti cali creativi. Giulio Base, meno solare del collega toscano, pesca in maniera scontata ed esornativa nelle gag di alleggerimento trasformate in fulgidi tratti arguti dal mirabile maestro Sir Alan. Ma, d’altronde, Bitonto, non è la Rimini estiva di Tutto liscio!. Figuriamoci la Dublino piovosa e proletaria di The Commitments. Nondimeno, col procedere della trama, Base palesa tra le righe uno status d’autorialità assolutamente valido. Per certi versi persino più rivelatore rispetto a Parker.

La scoperta dell’alterità gli calza a pennello. Base non ha simpatia per Giuseppe: prova empatia per lui. Qualcosa di ben più profondo. Ivano Marescotti, lungi dal pretendere inquadrature lusinghiere, dà il meglio di sé nei primi piani che ricordano il finale della parabola sul mondo bucolico La storia di Qiu Ju dell’arguto ed essenziale Zhāng Yìmóu. Giulio Base smarrisce la virtù di aggiungere all’invisibile, togliendo al visibile, allorché privilegia lo strumento del grandangolo per rendere lo straniamento di Giuseppe dinanzi alle bizze del figlio ostile perché il babbo ha scelto a fianco nella vita di coppia l’avvenente ed eterea Bikira. Il rapporto con l’altro figlio, pingue e dolce, appare invece piuttosto superficiale. La falegnameria domestica di Giuseppe, che investe il privato, s’ispira a L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi per stabilizzare il colpo di boa che Giulio Base dà con i movimenti di macchina da destra verso sinistra. Ventilando, alla Lars von Trier, lo sguardo di Dio dall’alto e la benedizione nel giorno del discusso matrimonio. Tanta carne al fuoco, dunque. Però, tutto sommato, qualcosa è andato liscio. Ed è giusto dare a Base quel che è di Base: la scelta di partire dalla dimensione pubblica per esprimere un’idea personale.

 

 

Massimiliano Serriello