Beate: la commedia dell’esordiente Samad Zarmandili, con Donatella Finocchiaro

Ridurre il costo del lavoro, delle materie prime e dei mezzi di produzione: in una parola, delocalizzare. Così può accadere che una fiorente impresa tessile del rovigiano, con all’attivo un discreto margine di profitti, decida comunque, in base a un freddo quanto istintivo calcolo economico, di spostarsi in Serbia, mettendo a repentaglio le sorti di un gruppo di operaie, da un giorno all’altro consegnate allo spettro della cassa integrazione.

Fin qui sembrerebbe una storia già sentita e anche un po’ retorica. Ma gli abili sceneggiatori di Beate, Antonio Checci, Gianni Gatti e Salvatore Marra, hanno saputo introdurre un’apprezzabile variante, dando corpo a una comica, quanto interessante, alleanza tra le suddette lavoratrici e le suore ricamatrici di un convento del luogo, dimostrando che, anche se assai raramente, i miracoli si possono verificare.

L’opera prima di Samad Zarmandili funziona in quanto riesce a denunciare le nefandezze del sempre più spietato mondo del lavoro con uno sguardo non moralistico che, attraverso la lente deformante – ma assai gradevole – dell’umorismo, restituisce un’immagine verosimile di chi è stato travolto dalla iattura della perdita dell’impiego. Inoltre, il fatto che il film sia tutto al femminile fornisce senza dubbio un ulteriore valore: la donna incarna esemplarmente la gioia (spinoziana-deluziana) della Potenza, di contro alla freddezza mortifera del Potere veicolato dalla miope logica dell’aumento indiscriminato di profitto.

Armida (la brava, come sempre, Donatella Finocchiaro), un personaggio che si divide tra consapevolezza politica e bisogno di fede, è la condottiera caparbia, ma anche fragile (il piede torto ne rivela la vulnerabilità), di una decina di lavoratrici che non si vogliono rassegnare. Su di essa – nel nome un destino – incombe il compito di trovare una funambolica sintesi tra sacro e profano, tra lotta e bisogno di evadere da una realtà spesso soffocante, che non lascia speranza. E, allora, l’innesto (seppur ridanciano) della questione della trascendenza acquista particolare significato, innanzitutto perché il territorio in cui si svolge l’azione ha davvero mantenuto un legame forte con la religiosità, ma soprattutto in quanto la prosaicità della postmodernità necessita di recuperare quella riserva di senso da sempre custodita nello “scrigno del sacro”.

Un sacro ancestrale, ovviamente, che precede qualunque tentativo di istituzionalizzazione e di traduzione in forma di culto, anche se in Beate (e non poteva essere altrimenti) tutto ciò prende corpo all’interno dell’immaginario cattolico.

L’unico maschio del film, Loris (l’efficace Paolo Pierobon, visto nel recente e di questi tempi più che mai necessario L’ordine delle cose di Andrea Segre), è una figura con un certo peso, ma la sua funzione è solo quella di agevolare il percorso di liberazione delle donne con cui condivide le sorti. Il femminile rappresentato in Beate è perfettamente autonomo, tanto che, intelligentemente, si è evitato il “vissero felici e contenti” finale che avrebbe reso dozzinale la storia.

In sintesi, una favola antropologica, efficace messa in scena del mondo del lavoro contemporaneo, nonché gustoso divertissement in salsa veneta, prodotta dal coraggioso Dario Formisano di Eskimo.

 

 

Luca Biscontini