Un film, due biopic: Beautiful boy, con la regia di Felix van Groeningen, costruisce la sua narrazione intersecando le biografie di David Sheff e di suo figlio Nic.
Esce fuori un corpus unico e coerente con se stesso, che, anzi, riesce a rendere molto bene il complesso e doloroso rapporto padre-figlio all’ombra della dipendenza, supportato alla grandissima da uno Steve Carell in gran spolvero che solo negli ultimi 365 giorni ha portato sul grande schermo tre personaggi giganteschi, come enorme è la sua interpretazione (gli altri due, per la cronaca, sono in Benvenuti a Marwen e Vice – L’uomo nell’ombra).
Beautiful boy ha la -rara intelligenza di non andare ad indagare sul quando e sul come è iniziato il percorso di dipendenza del figlio Nic, centrando invece i riflettori su lui e il genitore e facendo emergere la loro storia, dai particolari tra essi e dai flashback che emergono qua e là.
Grazie a quest’intuizione di sceneggiatura, il film non imbocca mai strade didascaliche o retoriche, non cade mai nel pietismo, non cede alla commozione facile, ma, pur tralasciando nella vaghezza del passato le cause della tossicodipendenza di Nic, ne mette bene in scena gli effetti devastanti. E qui si potrebbe ricadere nella trappola del film a tema, se non fosse per l’altra interpretazione prodigiosa del film, quella di Timothèe Chalamet: inquieta, furiosa, paranoica, sfuggente, violenta, la sua presenza illumina il tutto con una fisicità unica che, al contrario di quanto visto nel Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino (dove il suo corpo viveva di una tensione verso l’altro), qui si introflette trasformandosi in una ricerca intima.
Piace anche l’idea di evitare la classica e abusata struttura in tre atti (che in un film sulla droga avrebbe risentito di un ovvio deja-vu), scegliendone invece una circolare e oscillante. Passato e presente, luci e ombre, uscite dal tunnel e ricadute, e tutto ricomincia.
Per una volta, il senso di “ristagno” che sembra aleggiare in una storia che, a tratti, assume contorni allucinati o allucinatori, non fa che rendere migliore un’opera che era fortemente a rischio sulla carta.
GianLorenzo Franzì
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