Bigger than us – Un mondo insieme: l’età verde e l’impegno civile

L’impegno civile nell’età verde trae partito da quelli che Abraham Lincoln definiva i migliori angeli della nostra indole? Secondo l’avvenente ed energica attrice francese Marion Cotillard sì. Nelle insolite vesti di produttrice del documentario Bigger than us – Un mondo insieme, il suo messaggio appare chiaro: l’idoneo senso d’appartenenza germogliato nel fiore degli anni costituisce un monito per non abbandonare l’intero pianeta all’improntitudine di chi caldeggia solo ed esclusivamente la turpe moralità economica.

In tandem con l’ambiziosa regista Flore Vasseur, autrice già dell’applaudito apologo sul dibattuto sistema democratico Meeting Snowden, la star transalpina trasforma in realtà il progetto di condividere lo stesso ideale scoprendo nel viaggio intorno al mondo i peculiari valori umani, antropologici ed etnografici ghermiti dall’egemonia della materia sullo spirito.

Il tema della salvifica condivisione permea la sceneggiatura redatta grazie all’ausilio dell’alacre diciottenne indonesiana Melati Wijsen che, dopo aver condotto in porto la battaglia sulla sostenibilità ambientale nel proprio paese denunciando il degrado causato dai rifiuti di plastica imperanti a largo di Bali, si confronta con altri sei giovani attivisti: il libanese Mohamad Al Jounde; la ventiduenne Memory Banda, residente a Malawi; l’affabile brasiliano Rene Silva, fondatore del giornale Voz das Comunidades; l’estroso cantante d’origine messicana Xiuhtezcatl Martinez, intento a sensibilizzare per mezzo dei brani hip-hop l’opinione pubblica in merito all’empia caccia al gas delle industrie energetiche in Colorado; la britannica Mary Finn, reclutata nelle operazioni di salvataggio degli emigrati diretti verso le coste della Grecia; la risoluta Winnie Tushabe, decisa, a dispetto dello stato interessante, ad anteporre le sane tecniche agricole alle pratiche ree d’attanagliare il suolo di Uganda.

L’effigie dei luoghi chiave, anziché riuscire ad appaiare al sottosuolo dei gesti degli abitanti gli effetti seducenti dell’ordine naturale delle cose messo a rischio da deprecabili tornaconti, risulta piuttosto slegata dalle concrete tensioni caratteriali, dalle tessere emotive e dal risalto conferito all’efficace timbro d’autenticità. Catturato lungo le linee dei volti, talora davvero illuminati dalla possibilità di scuotere le coscienze, nella cura di certi semitoni, nella maggior comunicativa degli sguardi. Che rispetto ai banali elementi figurativi, incapaci di trasmettere la forza significante del rapporto tra habitat ed esseri umani, accorda al racconto morale una spontaneità di tratto aliena al regno del risaputo. Mentre i primi piani colgono nel segno, evidenziando col probante mix di reazioni mimiche ed eloquenti silenzi lo spessore dell’antiretorica, la vana geografia emozionale paga dazio all’enfasi di maniera. In tal modo i percorsi, i sentieri, le strade che portano in Libano, nell’Africa orientale, nella favela di Rio de Janeiro, nelle aree a rischio del Colorado, nelle coste della Grecia, nei villaggi dell’Uganda, cercando di sublimare nella poesia – estranea a ogni alone patetico – il passaggio dai meriti formali alle virtù contenutistiche, tralignano nel poeticismo.

Con le riprese dall’alto, ad appannaggio dell’Onnipotente, avulso ai biechi interessi delle maxi aste e allo sfruttamento del territorio, sugli scudi. L’interazione tra suoni diegetici ed extradiegetici, compensando alla penuria di scenari riflessivi, permette invece alle tensioni sotterranee di emergere. Nonostante qualche momento di noia dovuto alle modalità esplicative di alcuni dialoghi. Che sanno di programmatico ed ergo di scontato. A parte una partita a pallone con la sfera di cuoio sostituita dagli stracci, gli attimi d’intima commozione latitano. Le buone intenzioni rimangono. Tuttavia resta in superficie pure il seme dell’assunto narrativo: l’anima dei territori. Eletti a location, sfruttati dagli avidi, conformi ai corsi e ricorsi storici, difesi dalla nuova generazione. Bigger than us – Un mondo insieme non aggiunge nulla di rilevante alla percezione soggettiva e collettiva dei vari spazi inquadrati né approfondisce sul serio i determinanti legami di suolo, oltre che di sangue, dell’ampia community di tenaci ecologisti.

 

 

Massimiliano Serriello