Decisa ad affrancare il pubblico avvertito dai valori precipuamente cinematografici tagliati però con l’accetta del mestierante, privo dell’irrinunciabile carattere d’ingegno creativo dell’autore tout court, avvezzo a congiungere gli stilemi ritenuti agli antipodi della crudezza oggettiva e dell’incanto poetico, l’alacre regista britannica Andrea Arnold conferma in Bird il valore sostanziale della propria cifra stilistica.
Orientata ad anteporre alla forza limitante connessa ai rigidi orizzonti d’attese la forza significante di un’ampia e spiazzante polivalenza espressiva ed evocativa. Sugli scudi sin dal film rivelazione a cui l’arguta Arnold deve la fama, Fish tank. Incentrato sulla capacità di servirsi della musica hip-hop in chiave antiretorica per approfondire l’altalena degli stati d’animo dell’universo adolescenziale.

Fino ad arrivare al sagace road movie American honey. In cui i balli conclusivi attorno al fuoco convertono sulle note del leitmotov del singolo We found love di Rihanna lo scandaglio nudo e crudo d’una zoticona dai facili costumi in fuga lungo le eterogenee ed emblematiche strade del profondo sud dalla schiavitù dell’ingannevole focolare in fulgida accensione mentale. Che conclude la sconclusionatezza del viaggio senza una vera meta all’insegna dell’ordine naturale delle cose. Ghermito attraverso i paesaggi riflessivi concepiti dalla geografia emozionale. Chiamata spesso a condizionare i modi di reagire agli schiaffi del destino da parte dei personaggi attanagliati dai vincoli di sangue e di suolo. Anche nell’incipit di Bird il valore rappresentato dai legami familiari e dall’interazione tra habitat ed esseri umani diviene un disvalore carico di senso. Sulla scorta della martellante musica intradiegetica ed extradiegetica, del traballante incedere della camera a mano, dell’assidua inquadratura di quinta, conforme al dotto pedinamento d’ascendenza zavattiniana, del pathos serpeggiante. Che spinge la dodicenne meticcia Bailey, a un tiro di schioppo dallo sviluppo, ad affrontare a muso duro l’immaturo padre Bug. Troglodita dall’animo bonario ed eterno Peter Pan. In procinto di risposarsi e di spacciare per sostanza psichedelica il muco emesso, allo scopo di mantenere umida la buccia a strisce, da un rospo proveniente dai deserti americani. A oltre tremila miglia di distanza quindi dalle aree pianeggianti e dall’hinterland sito sulla costa settentrionale del Kent. L’effigie ravvicinata d’un indicativo insetto alla finestra, che richiama alla mente il simbolismo febbrile ed ermetico dei rapsodici apologhi sulle identità irregolari, il transatlantico, ripreso invece in lontananza, simile a quello apparso in Amarcord di Federico Fellini, i graffiti incisi sui muri in evidenza al pari degli edifici abusivi, detti squatters, si vanno ad appaiare, con l’implicito spettacolo d’inquietudini ivi congiunto tipico d’ogni horror spurio, al carattere d’autenticità del quadro d’insieme.

Mentre il ritratto dei giovani ed energici amici di Bailey, fedeli al principio dell’occhio per occhio acquisito nell’università della strada limitrofa, paga dazio al carattere troppo generico d’una rappresentazione sommariamente impressionistica, che veleggia a ben vedere in superficie, la visuale catturata tramite lo smartphone degli animali e degli animaletti che tallonano l’immusonita protagonista riesce ad aggiungere una sorta di torrido ed equatoriale sortilegio all’algida degradazione dell’esistenza giornaliera. Bisognosa d’un risolutivo cortocircuito elegiaco, alla stregua del tipo di narrazione casuale di American honey che alla fretta di arrivare alla conclusione privilegia una densa ed empatica contemplazione, per trascendere i limiti delle pellicole d’impegno civile. L’egemonia del fulgore metafisico affiora definitivamente con la comparsa, sui tetti delle colate di cemento occupate e in mezzo agli speculari campi di grano incoltivati, del senzatetto munito di ali. Denominato Bird. Il talento della ragazza di buccia dura, dal viso però angelico, nell’attrarre insetti, gabbiani e cavalli cadrebbe nell’infertile pigrizia delle idee attinte ad antesignani più predisposti sia sul versante immaginifico sia su quello degli scenari da brivido se l’ennesima illustrazione proletaria, analoga ai sobborghi di Auckland nella Nuova Zelanda in Once were warriors – Una volta erano guerrieri dove i maōri cercano nelle canzoni intonate a squarciagola sui fumi dell’alcol l’evasione passeggera dalle indefesse ingiurie quotidiane, non ricavasse linfa, al momento opportuno, dalla sensazione di meraviglia fiabesca. Il rischio piuttosto tangibile di tralignare lo spessore d’un’amara verità antropomorfica, già venata in filigrana di pietà in virtù dell’arguto mix d’intelligenti rimandi panteisti ed elementi urbanistici degradati, in un vano surplus d’enfasi smancerosa è scongiurato appieno dal proverbiale carattere polivalente di Andrea Arnold.

Che impreziosisce le meste prospettive imposte dal carattere nevrotico al profilo intimo inserito nel simulacro della collettività allo sbando. La palla al piede dei condizionamenti privati e ambientali trae perciò vigore dall’analisi condotta scavando sui volti del padre, dell’indocile figlioletta, decisa a sottrarre il sangue del proprio sangue costituito dalle sorelline ai soprassalti di stizza del becero partner della labile mamma, nonché del primogenito. Atterrito, a sua volta, dal dover assumersi anzitempo il fardello delle responsabilità genitoriali. La chiusura del cerchio, abiurando alla scontata indagine a largo raggio dell’area periferica, sancisce l’attitudine a razionalizzare l’assurdo. Ad appannaggio della poesia. Saldamente sentita da Andrea Arnold. Intenta a guidare con mano sicura l’intero cast, in stato di grazia, parallelamente all’eclettica colonna sonora che spazia dal tormentone dei Blur ai Fountain D.C. di Too real, nei binari dell’approccio semi-documentaristico, della spontaneità, frammista allo scrupolo severo, dell’intensa mescolanza di toni aspri e frammenti irregolari. Ed è nell’irregolarità, foriera di toccante umanità, che Bird si concentra per permettere all’apparente accidentalità degli eventi minimi ed eminentemente cruciali di evocare il mistero precluso alla vista. Ma percepibile nell’allusivo teatro a cielo aperto. Che tramuta in epidermico incantesimo lo stridente dissidio patito dallo spirito. Sovrastato, dapprincipio, dalla materia.
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