A quattro anni di distanza dal war movie The sacrifice – Eroi di guerra, che commemora il settantesimo anniversario della partecipazione dell’Esercito Volontario Popolare Cinese al conflitto di Corea ponendo l’accento sullo spirito di corpo necessario ad affrontare l’arduo bombardamento dei nemici a stelle e strisce, l’eclettico regista Guan Hu torna dietro la macchina da presa con l’errabondo ed empatico noir Black dog.

Mutando diametralmente segno rispetto all’enfasi di maniera mandata ad effetto per dare lustro alle imprese militari volte a favorire l’assurdo livellamento egualitario contrabbandato dalla propaganda comunista.

Il passaggio dalla retorica che veleggia sulla superficie delle cose all’antiretorica incline ad approfondire le zone d’ombra della Storia, senza pagare dazio ai meri coefficienti spettacolari richiesti dal pubblico dai gusti semplici, implica la comprensione dei moti di rabbia degli individui relegati ai margini del deserto dei Gobi. L’immediatezza dell’inane tasto sensazionalista, che taglia con l’accetta del mestierante le tensioni psicologiche frammiste alle emblematiche indoli agli antipodi senza tenere mai in considerazione la forza significante dell’aura ascetica, cede così spazio al timbro compenetrante e al contempo misterioso dell’apologo sul randagismo alla vigilia delle Olimpiadi di Pechino del 2006. Sin dall’incipit emerge l’opportuno ricorso agli stilemi del film post-apocalittico che traggono partito dell’apporto della geografia emozionale. La necessità espressiva dei campi lunghi, oltre a suggellare l’interazione tra habitat ed esseri umani garantendo all’ovvio quadro desolato battuto dal vento un’arguta componente luministica capace di convertire il tessuto figurativo in monito evocativo, conferisce al risaputo pathos avventuroso e panteistico, attinto a piene mani agli appassionati western di John Ford, il valore aggiunto della rarefazione. In antitesi col dinamismo dell’azione. Il rischio concreto di cadere nell’impasse dell’infecondo ermetismo, che spesso e volentieri complica le cose semplici invece di semplificare le cose complicate, viene subito scongiurato dalla vena comunicativa dei personaggi di fianco. Come l’autista della camionetta ribaltata a causa dell’inopinata corsa nel sentiero riservato al traffico di automezzi d’una muta di cani randagi. Alla verbosità caricaturale dei fugaci ma chiassosi alfieri dell’egemonia della materia sullo spirito, decisi ad acciuffare il migliore amico dell’uomo dal manto nero considerato rabbioso per compiacere i sordidi padroni del vapore autoctoni, corrisponde di contro il silenzio tombale dell’immusonito Lang.

Da una parte l’apporto delle modalità esplicative, benché dispiegate al limite della connotazione macchiettistica, riesce ad assicurare alla trama l’idoneo tasso d’intellegibilità, aggirando l’ostacolo costituito dal disegno geometrico dell’intreccio congiunto all’eccessivo dedalo d’infiniti sottotesti ed elaborati rebus fini a se stessi; dall’altra il contrappunto degli eloquenti silenzi del protagonista, avvezzo a parlare con gli occhi, richiama alla mente sia l’atmosfera poetica dei vibratili ed epici affreschi dell’illustre conterraneo Zhang Yimou, lungo un arco che va dall’asciutto mélo La storia di Qiu Ju al fiore all’occhiello dell’applaudito genere wuixia Shadow, sia l’intelligente gioco d’impacci del dotto ed esilarante Jacques Tati in Play time – Tempo di divertimento. Sebbene la giustapposizione dei tópoi completamente opposti tra loro risulti troppo programmatica, ed ergo inadatta ad aggiungere al paesaggio di rovine dell’ambientazione l’assorbimento della scontata tematica dell’opera d’impegno civile aliena all’intarsio di satira e pietas delle duttili partiture antropologiche, la scoperta step by step del passato di Lang alza parecchio l’asticella. Specie rispetto alla pedissequa alternanza d’interni desolanti ed esterni selvaggi col surplus dell’arcinota cornice di luce che apre lo scrigno del buio alla prateria attigua saturando il quadro complessivo sulla scorta dell’infruttuosa sensazione di déjà vu. Il ritorno al presunto mondo libero, dopo aver scontato la condanna dovuta a un regolamento di conti con la malavita locale, la bonomia dei circensi, coi quali prima della detenzione il protagonista si esibiva a bordo dell’inseparabile motocicletta nel rimpianto spettacolo di acrobazie, l’anziano genitore schiavo tanto dell’alcol quanto del falso progresso sbandierato dai nemici della tradizione, l’eclisse annunciata dai mezzi di comunicazione, i miglioramenti promessi dagli ipocriti autoparlanti sono invece orchestrati dal ritemprato Guan Hu scandagliando ad arte i mali di classe e i disvalori spacciati per valori.

L’effigie degli edifici in attesa dell’empia demolizione, alla stregua dei cagnoni in fuga dal cinismo di chi li vuole sopprimere sull’altare d’una società ritenuta in crescita, regredita in realtà all’età della pietra, ricava quindi parecchia linfa dalla scenografia ruvida d’ascendenza pasoliniana. Al posto poi del regresso della parabola impreziosita dall’apposita scrittura per immagini in vieto melodramma, la cui rigida struttura appare inconciliabile con l’ebrezza d’una visione d’autore che riesce ad accoppiare la paura e la violenza ai moniti di speranza sepolti nel sottosuolo dei gesti, assistiamo man mano alla sacrosanta palingenesi dello spaesamento delle corde ottiche, elette ad antidoto ideale alle corde dell’inutile artificio, tese allo spasimo dinanzi alla diffusa vena di sadismo nell’intensità dei coinvolgenti cambi di rotta. I calibrati trapassi di umore, i modi stringati, la sobrietà della linea narrativa fanno quindi spazio palmo a palmo all’intesa di Lang col temuto cane nero. Convertito dal facinoroso preambolo dei morsi d’avvertimento nel catartico dogma della fiducia reciproca. Black dog chiude quindi i battenti sulle note di Hey you dei Pink Floyd. Un colpo di gomito, nell’ambito dei buoni sentimenti dapprincipio trattenuti, scelto per concludere con dolcezza l’amara vicenda contraddistinta dalla stretta pertinenza degli appropriati suoni diegetici, confortati dalla sontuosità della dinamica cromatica che trasforma il grigiore esistenziale in uno spettro solare dischiuso dal ristabilimento dell’ordine naturale delle cose, secondo i parametri cari pure a James L. Brooks in Qualcosa è cambiato. E se altresì in Black dog è cambiato qualcosa di significativo, in un contesto diversissimo rispetto ai disturbi compulsivi guariti in giro per New York grazie al tenero griffoncino di Bruxelles, il merito va condiviso col bravissimo Eddie Peng nei compositi panni dell’irritabile Lang, destinato ad allentare la corazza di fronte al chiarore della commozione, e il sorprendente cucciolone nero. Che tramuta in un’assoluta garanzia di qualità lo sminuente cliché canzonatorio di recitare come un cane.


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