Sono lontani anni luce i tempi di Tutti giù per terra e Tutta colpa di Giuda in cui l’appassionato ed esperto regista Davide Ferrario, alternando al genere documentario l’empatia del cinema di finzione, seppe trarre linfa sia dalla scelta del cast sia dai timbri malincomici, in grado d’inserire dei guizzi trascinanti nello scandaglio introspettivo, o anche la sua ultima fatica, Boys, si fa seguire col cuore stretto?
Il filone-nostalgia, pur soppesato dalla programmatica bizzarria dei passaggi ridanciani per evitare agli spettatori dalla lacrime facile di tirar fuori il fazzoletto a ogni piè sospinto e al pubblico invece maggiormente avvertito di cadere nella noia di piombo, rischia di concedere troppe ovvietà.
Inoltre la levità gentile connessa all’indubbia virtù dell’autoironia è subito contraddetta dall’ampolloso ed esplicito inchino al mito del rock. Con tanto di citazione del compianto chitarrista Jimi Hendrix. Già chiamato in causa da Carlo Verdone in Maledetto il giorno che t’ho incontrato. Lo spasso evocato dal vincolante incipit non trova l’idonea corrispondenza nel ricorso al bianco e nero, per conferire ai fugaci flashback la giusta atmosfera, nell’arcinoto split screen, intento ad amalgamare al carattere spiccio del bozzetto intimistico il segno d’ammicco per i presunti palati fini, nei movimenti di macchina circolari che accompagnano le assidue tavolate dei quattro eterni ragazzi. La prospettiva per la vecchia band di tornare a suonare sul serio, con una cover insieme al rapper del momento, persuaso dalla propria agente, che nasconde l’indole arrivista dietro gli ipocriti salamelecchi, dà origine ad alcune dinamiche drammaturgiche sprovviste d’idee originali. Il senso d’invalidante déjà-vu congiunto al copione, redatto con Cristiana Mainardi, assai meno sul pezzo rispetto alla stesura dell’avvincente film d’impegno civile Nome di donna, costringe quindi la scrittura per immagini a fare gli straordinari. Mentre l’analisi degli affetti domestici paga dazio alle battute attinte a La guerra dei Roses sui mal di pancia scambiati per attacchi di cuore, all’ovvio eco di Amici miei, al viaggio sul filo dei ricordi, condotto negli spazi ormai logori del dramedy generazionale, che c’entra poco o niente con l’inane vena satirica serpeggiata dopo i siparietti volti a introdurre ciascun personaggio, parecchie soluzioni tecniche risultano degne di nota.
Specie il leitmotiv dell’inquadratura sghemba. Frutto d’uno stile di ripresa avvezzo ad aggiungere uno sguardo debitamente critico, ed ergo singolare, all’ennesima illusione dell’avventura, alla rentrée gremita di luoghi comuni, alla velleitaria qualità formale bisognosa dell’opportuno colpo d’ala sul piano dei contenuti. Le angolazioni fish-eye, che danno l’impressione di osservare il dipanarsi degli eventi dentro un’ampolla di vetro, consentono infatti all’impianto realistico e all’osservazione sociologica di acquisire un pizzico d’arguzia, anziché disperdersi nei soliti sfoghi esistenziali, per unire alle note spiritose un solerte ed estroso complemento visuale. Estraneo agli inutili riempitivi. Associati ai carrelli dal basso verso l’alto, a ribadire il bisogno di guardare oltre da parte della band di arzilli sessantenni, agli sfondi cartolineschi, incapaci di riflettere l’altalena degli umori, alla bravura sbandierata nonché disuguale d’ogni attore. Più convincente negli spicchi di vita, ciò nonostante tirati via alla bell’e meglio, che nelle sequenze collettive. Impreziosite dalla cura dei dettagli e dagli elementi ambientali. Nelle case dove s’incrociano la voglia sempiterna di prendersi in giro, stimolando l’arguzia l’uno dell’altro come negli apologhi di Marco Tullio Giordana sull’intesa virile, e le composite tastiere dei trapassi introspettivi. Gli interni, dunque, a differenza dei superficiali ed esornativi esterni, contribuiscono ad andare in profondità.
Sopperendo alla carenza di rigore strutturale. Quando Joe, Carlo, Bobo e Giacomo si abbandonano in piroette, nella piscina dell’ex vocalist Anita, interpretata da Isabel Russinova con un accento poetico scevro dai cascami dell’enfasi di maniera, l’esile garbo dell’affresco dolceamaro acquista lo spessore della fiaba surreale. Al fascino suscitato dall’interludio, abile ad appaiare tenerezza ed eccentricità nel linguaggio dei corpi, rinvigoriti a dispetto degli acciacchi dal risveglio di primavera garantito dalla schietta terapia della reminiscenza, non corrisponde il sapido gusto intellettuale alla Woody Allen. La penuria di battute scoppiettanti, d’invenzioni burlesche ed erudite, in merito all’accettazione della sorte e alla voluttà d’ingannarla, rende l’intermezzo una consolazione di breve durata. Quasi un abbaglio. Prima che l’inventiva, eletta ad antidoto contro qualunque prevedibilità, ceda il passo all’immancabile happy end a suon di musica. Che difficilmente manderà in brodo di giuggiole i seguaci dei ritmi consolidati dall’uso virtuosistico della batteria. Lì Giovanni Storti (Carlo), orfano dell’affiatatissimo trio con Aldo e Giacomo, gira a vuoto. Con buona pace delle strizzatine d’occhio lanciate per nascondere l’impasse. Boys procura così qualche sorriso, mette allegria in certe circostanze, sciupando i buoni propositi nel disegno dei ritratti. Sviliti dalla smania di ribaltare l’insistita ricerca di chiarezza, affidata alle scelte luministiche dell’ammiccante fotografia, in fulgidi motivi d’ispirazione e i dislivelli nel ritmo in pause ascetiche. Baciate dall’ingegno.
Massimiliano Serriello
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