Capone: Tom Hardy sulle orme di Robert De Niro

Il desiderio di arricchire la sua galleria d’indimenticabili personaggi, interpretati sulla scorta dell’erudita ed empatica capacità d’immedesimazione, ha spinto l’ormai esperto attore britannico Tom Hardy a raccogliere l’ardua sfida prospettatagli dal noto tycoon statunitense Lawrence Bender.

Vestendo i panni del boss italoamericano Al Capone nel biopic Capone, diretto dal regista Josh Trank. Artefice altresì dell’ambiziosa sceneggiatura. Incentrata sul crepuscolo dell’ex pericolo pubblico numero uno. Colpito dall’ictus e tormentato, prima di coniugare l’esistenza all’imperfetto, dagli inesorabili demoni privati.

A differenza dei mostri sacri Rod Steiger in Al Capone di Richard Wilson, Jason Robards ne Il massacro del giorno di San Valentino di Roger Corman e Robert De Niro in The untouchables – Gli intoccabili di Brian De Palma, col gangster ancora sulla cresta dell’onda, nel pieno delle proprie facoltà mentali, Tom Hardy snuda l’intimità dell’autocrate ma fragile malfattore con le rotelle fuori posto. Ritiratosi nella principesca tenuta di Miami dopo aver trascorso otto anni in prigione. Il clima d’attesa d’inizio film coglie nel segno. Al punto da ingenerare forse troppe aspettative in merito alla curiosa possibilità di unire l’aura contemplativa della poesia e la suspense in grado di tenere davvero sui carboni ardenti tutte le platee. Persino quelle più refrattarie ad assistere all’ennesimo apologo sulla sconfitta. L’incisiva maschera di Tom Hardy, forte dell’ottimo contributo fornito dalle costumiste Courtney Lether e Lana Mora, che incuneano nelle rughe d’espressione frammiste all’incedere dell’impietoso morbo l’attanagliante sgomento malcelato dalle pose tronfie, col sigaro sempre tra le labbra, accorda lì per lì molto fascino all’affresco in chiave mélo.

Mentre gli stilemi del cinema d’atmosfera impreziosiscono il gioco psicologico degli elementi ambientali, specie quando Al detto Fonz spiega ai bimbi di casa l’importanza per la famiglia di radunarsi a tavola nel giorno del ringraziamento, rievocando l’indigenza patita in gioventù, il catalogo di meste moine e atroci spasimi, ai limiti del ridicolo involontario, una volta svanito l’ultimo barlume di lucidità, lascia perplessi. L’aderenza, cara ai proseliti del Metodo Stanislavskij, nei confronti dell’alterazione mimica dovuta all’incomunicabilità applica in pieno la formula che ha permesso a Dustin Hoffman in Rain man – L’uomo della pioggia, Daniel Day-Lewis ne Il mio piede sinistro e Geoffrey Rush in Shine di conquistare l’ambìto premio Oscar. Hardy, a caccia di prestigiose medaglie, ci dà quindi dentro. Finendo però per preferire l’esteriorità del radicalismo recitativo all’opportuna sottigliezza interiore dei semitoni. Il ricorso pressoché sistematico ai piani ravvicinati, alle soggettive stranianti, ai carrelli in avanti, sul volto sofferente dell’attonito malavitoso costretto a privarsi delle amate statue del giardino, non basta a stregare gli spettatori né ad aggiungere un utile tassello all’approfondimento sia delle note di costume sia dei sinistri soprassalti d’inane ferocia. Trank, avvezzo di solito alle parabole fantasy ed ergo all’egemonia del valore dell’immaginazione sugli aguzzi ritratti dei reggenti sbalzati di sella, ci trascina nell’irrealtà degli insistiti movimenti di macchina. Ora dall’alto verso il basso. Ora all’inverso. Per tentare di conferire alle frequenti incursioni negli incubi dell’inquieto padrone del vapore, ridotto al lumicino, un impalco sontuoso ed emozionante.

Al ghiribizzo del cortocircuito onirico corrisponde l’infertile ebbrezza di ricavare scene culminanti a ogni piè sospinto dal mero esercizio di stile nell’ambito dei ritorni all’amara realtà. Che grondano retorica invece di trarre partito dai modi asciutti del lavoro di sottrazione. La ricerca, al contrario, dell’accumulo, tanto nel taglio delle inquadrature quanto nei vanesi match-cut visivi, intenti ad accostare l’evocazione degli esterni panteisti allo strazio dell’uomo giunto al capolinea, traligna il nitore contenutistico in vana dialettica formale. Gli spazi in teoria riflessivi, attigui alla gabbia dorata, divengono così solo esornativi. Fonz che recita a memoria Il mago di Oz durante la proiezione domestica sbandiera l’ovvio panegirico del potere affabulatorio della fabbrica dei sogni. Sull’esempio di Barry Levinson nel modesto Bugsy. Infecondo emule del grande Sergio Leone in C’era una volta in America. La strizzatina d’occhio ai cinéphiles si perde dunque nel vuoto insieme ai precari tocchi d’ironia volontaria e ai funerei rintocchi dell’improbabile “tranche de vie”. Scandita, qua e là, dai teneri ed eloquenti silenzi di Linda Cardellini nel ruolo della moglie del vaneggiante Fonz. Capone, con l’epilogo attinto a Il padrino parte III, tallona tuttavia l’appeal liturgico ed elegiaco dell’opera monumentale per poi mordersi la coda. Pagando dazio al fioco afflato dei nani sulle spalle dei giganti.

 

 

Massimiliano Serriello