Carlo Verdone : “La sala è l’anima del cinema!”

Carlo Verdone, in occasione della presentazione del libro fotografico di Claudio Porcarelli Uno, dieci, cento Verdone, realizzato da Banco BPM , ha incontrato la stampa presso  palazzo Altieri, che fu una delle residenze della leggendaria Anna Magnani.

Un incontro che, introdotto dal critico cinematografico Mario Sesti, ha rappresentato l’occasione non solo per parlare del libro, ma anche per celebrare la lunga carriera dell’attore e regista romano.

Affiancato dal fotografo Porcarelli e con Giuseppe Castagna amministratore delegato del Banco BPM, Verdone ha dichiarato: “La mia professione è stata e continua ad essere profondamente seria: regalare risate e leggerezza alla gente”, ma, proseguendo fino al momento delle fatidiche domande della stampa, ha lasciato rapidamente emergere la sua capacità genetica insita nel dna di far ridere, partendo  anche da banali episodi della vita quotidiana.

“Questo libro ha fermato nel tempo alcune fasi importanti della mia carriera. Credo che la mia forza sia stata quella di essere una persona molto sensibile, ho avuto una famiglia che mi ha sempre stimolato a guardare gli artigiani del mio quartiere. I miei genitori mi hanno sempre stimolato a girare nel mio quartiere tra Campo de Fiori e Trastevere, a guardare, osservare, sono stato spinto da questa curiosità. Alberto Sordi aveva la finestra vicino  a me in Via dei Pettinari.  Poi, quando mio padre mi ha regalato la tessera dei cineclub per farmi una cultura cinematografica, ho scoperto la grandezza del cinema italiano, che stava  nella forza di registi come Fellini e Pietro Germi, i quali avevano la capacità di portarci attori veri e credibili anche nella seconda e terza fascia”, ha proseguito, “Tutti sappiamo che Mastroianni è stato uno grande attore, ma ci sono film che, senza alcuni caratteristi, non sarebbero ricordati. Alcuni hanno fatto la fortuna dei film più degli attori protagonisti, in questo De Sica, Germi, Dino Risi erano maestri. Germi non ha mai sbagliato un personaggio nel dettaglio, Fellini non ha mai sbagliato niente nei suoi film. Tutto quel mosaico di personaggi era assolutamente vero e io ne ero estasiato. Quando ho scoperto che avevo questa sensibilità e questa capacità di trasportare dei personaggi attraverso una gestualità, delle pause, attraverso il modo di fumare, riuscivo ad individuare l’anima del personaggio e vedevo che, poi, il corpo, una volta catturata la voce, si muoveva da solo. Io sono solo una persona che non prova, sono sempre andato a istinto”.

E non ha mancato di raccontare un particolare episodio sul suo istinto attoriale: “Mi ha fatto riflettere su quanto mi sono spersonalizzato, ma avevo dentro questo furore creativo che mi portava nei personaggi annullandomi. Penso che la mia forza sia la naturalezza, faccio delle prove approssimative per gli attori ma loro lo sanno che poi tiro via, perché quando batto il Ciak faccio tutto al 100%. Mi piace più dirigere quando sono io dentro la scena, io la chiamo spontaneità. Quando si faceva Un sacco bello nessuno si poteva rivedere, io chiedevo al direttore della fotografia che mi faceva le facce e capivo. Ricordate sempre il monologo dell’emigrante di Bianco rosso e Verdone, se lo avessi provato avrei fatto schifo, invece… Non si può costruire, io chiesi venti secondi di silenzio assoluto, mi chiusi dentro una stanza,  eravamo a Bassano Romano e ripercorsi tutti i disastri dell’emigrante da Monaco di Baviera fino a Matera, quindi dovevo partire in quarta. Io sono partito a mitraglietta, alla fine  ero uno straccio di sudore, parti un applauso dalle comparse e io risposi ‘Che fatica’. Mi chiesero di farne un’altra, il direttore mi diceva che non potevamo portarne una sola, ma almeno due per sicurezza, però dissi che non potevamo farne un’altra perché non ce la facevo. Ci provai, diede il motore dopo una pausa ma non avevo ritmo, lucidità e naturalezza, quindi,  ad un certo, punto stoppai tutto. Ne portammo una sola, ma, per fortuna, andò bene tutto”.

Per quanto riguarda le inevitabili domande relative ai consueti paragoni con Alberto Sordi, ha risposto: “Io non ho proprio niente di Sordi, lui sta lassù ed è un grande attore, una grande maschera. Lui è Alberto Sordi, è enorme, anche Aldo Fabrizi. Il mio è un altro tipo di lavoro. Oggi le domande che mi fanno più spesso sono ‘Oggi è più facile o più difficile fare commedia?’, dico sempre che è molto più difficile. Questo perché alcuni quartieri nella città e nel paese, ad eccezione di Napoli che si salva con un suo teatro aperto, sono cambiati del tutto. A Roma non c’è più il teatro di piazza, non ci sono più i mercati, oggi ci sono supermercati. Negli anni Ottanta ancora c’era chi parlava da finestra a finestra, ora la società è cambiata e i romani sono stati deportati dal centro della città alle periferie Tor Bella Monaca e Laurentino 38. Si sono andate a perdere l’umanità e la verità, ora la città è impoverita. Dobbiamo tenerci stretti film come Roma di Fellini, io sono stato l’ultimo ad utilizzare Mario Brega e la Sora Lella, che sono stati davvero gli  ultimi caratteristi. Poi è finito tutto per colpa dei registi e degli attori, molti sarebbero stati splendidi caratteristi, ma hanno tentato di fare i protagonisti senza la forza. Ora non c’è più il contorno fondamentale per Risi, Monicelli, Germi e Steno. Ora abbiamo tutti protagonisti senza cura nel contorno, mancano le figure che sono importanti e sono state la linfa della commedia italiana. È più difficile perché la gente si apre di meno, in quanto è incazzata col mondo, si vede anche quando critichi qualcuno e gli dici le peggiori cose. Sono tutti uguali, ma il vero dramma si chiama omologazione. Il taglio dei capelli, il tatuaggio, il modello di smartphone è tutto uguale. Ecco che non esce più fuori il personaggio, si parla di meno e si digita di più. Per un autore osservatore della società diventa faticoso, gli devi stampare le parole col forcipe. Questo è un disagio anche comprensibile con un futuro complicatissimo. Io non ci sarò più, ma mi preoccupo di che mondo ci sarà. Pensavo che dopo la Seconda Guerra Mondiale non ci sarebbero più state guerre, mentre ora ce ne sono di peggiori. C’era una volontà di riscatto fantastica, ora viviamo in un medioevo senza orizzonti. Voglio dire ai registi italiani che il cinema italiano è molto criticato dai giovani”.

Ha poi proseguito: “Giovanni Veronesi sta scrivendo con me, in questi giorni, per il nuovo film e ha fatto una trasmissione radiofonica in una a scuola, dove uno gli ha risposto di voler fare il critico. A precise domande sul cinema italiano, gli ha esposto i motivi, in modo lucido, su tutti i difetti attuali. Era difficile dare torto a quel ragazzo, che diventerà un critico incazzato. Io, per esempio, ho sempre cercato, partendo proprio da Un sacco bello, un film che  avrei potuto fare da solo, ma ho preferito circondarmi di grandi caratteristi come Mario Brega. Critico gli altri e critico anche me, però il compito del regista è continuare ad osservare la gente”.

Senza dimenticare le donne, sempre importanti nei suoi film: “Sono tutti film dove io recito con le donne, come Massimo Troisi, noi abbiamo scoperto  il cambiamento della donna stessa. Prima nelle commedie avevamo l’uomo conquistatore della bella di turno, ma con il femminismo è cambiato tutto, le donne oggi sono molto più forti rispetto all’uomo. Credo di aver raccontato bene una megalomania, che poi, alla fine, nascondono una grande fragilità, sono personaggi deboli. Ho rappresentato l’uomo fragile perché  la donna prima era oggetto del desiderio e l’uomo, ad un certo punto, è stato messo all’angolo e preso cazzotti da una donna vogliosa di riscatto nella società. Io e Troisi abbiamo rappresentato la nostra confusione di fronte ad un oggetto complicato, avevo mille patemi e ho rappresentato in quest’epoca il tipo di uomo debole, non codardo alla Sordi. Ho rappresentato uno sfiancato che si fa in mille pezzi… e poi lo ammetto: più sono messo in difficoltà, più rendo”.

Per quanto riguarda il rapporto attuale tra cinema e Netflix, ha osservato: “Credo che non si possa fermare l’evoluzione delle cose. Dipenderà da Netflix stesso, credo che la perdita della sala sia un grande dolore, ma non so se i giovani capiscono questo. Per noi il cinema è un luogo sacrale della condivisione, dell’aggregazione, oggi, però, non si vuole più. Ora la condivisione è soltanto condividere sulla rete con i like e le foto. È un peccato che la gente non voglia più stare insieme. Credo che il cinema italiano debba fare molto, ma molto di più, ci sono dei film che, forse, meritavano di più come incassi, però è colpa nostra se proponiamo film brutti. A questo punto la gente aspetta, non va in sala. Se la gente capisce che non ne ne vale la pena, non vedrà più film italiani. Tornando a Netflix, io non sono d’accordo sul dire che se un film va su Netflix non va a Cannes. Resta il fatto che è difficile trovare l’anima di un racconto in una serie, anche se molto bella e, comunque, realizzata come  una catena di montaggio con sessanta persone che scrivono, con tanti registi che dirigono. Se tu vuoi l’anima, devi andare al cinema, in sala. Il cinema in sala deve mantenere la sua anima, ma deve essere un film fatto bene. Però va benissimo la serie. Per esempio, la prima serie di House of Cards mi ha inchiodato alla poltrona, poi, andando avanti, mi ha stancato perché mancava Kevin Spacey. Se ci fosse stato Spacey, pure lui avrebbe detto ‘Vabbè è un mondo de merda, so’ tutti cattivi … me so rotto li cojoni !'”. Oggi è così, è il trionfo del male. Vedi Gomorra, Suburra, vedi qualcosa che non è molto educativo , ma questo è un altro tipo di discorso che, prima o poi, sarà da affrontare. Quando sento il  mio amico preside, che ha lavorato in un scuola molto difficile e mi racconta che ha dato il tema ai suoi ragazzi il titolo I vostri sogni, c’è chi ha scritto che voleva rifondare la Banda della Magliana, chi voleva prendersi Roma Est, chi voleva spacciare! E chi erano i più cattivi? Le donne !  Tutti volevano comandare, è tornato a casa, li ha letti e gli è preso un accidente. Tornato a scuola, ha tentato di fare un discorso, ma i ragazzi gli hanno risposto ‘Vuoi mettere donna Imma che comanda, quella è una vita piena’. Questi sono ragazzi che vengono da periferie disagiate e quelli sono gli esempi che, purtroppo, ricevono. Allora, per finire il discorso di prima,  io spero che la sala rimanga, anche se le serie sono belle e con attori meravigliosi”.

Alla domanda riguardante una serie tratta dal libro del calciatore Francesco Totti e ad un’altra futura serie che dovrebbe andare su Netflix ha risposto: “Veramente questa è una domanda assurda, è una fake news! Ho visto Totti giorni fa, ha altre cose fare, no, davvero smentisco ! Invece, per quanto riguarda la serie che sto scrivendo con Menotti e Guaglianone, è di proprietà di De Laurentis, non sappiamo se lui vuole darla a Sky o Netflix, per ora quello che gli abbiamo portato gli è piaciuto molto. Ora, invece, io devo fare un film, non vi posso dire molto a riguardo, lo stiamo preparando. Sarà un film con un’impronta corale, io sarò il regista e anche attore, insieme ad altri sei“.

Per poi concludere, a proposito del fatto che, pochi giorni fa, ha ricevuto l’onorificenza di Grande Ufficiale della Repubblica Italiana:

“Mi hanno fatto Grande Ufficiale della Repubblica Italiana firmato Mattarella controfirmato Conte, mi hanno fatto un’indagine durata un’anno. Allora, prima mi hanno chiamato al commissariato, una paura…. (tutti ridono in sala). E, invece, dopo ho scoperto che il Quirinale ha fatto richiesta di propormi e mi chiedeva il mio curriculum, la mia tesi di laurea etc. etc. Mi hanno spiegato  che c’era qualche onorificenza in atto, mi hanno chiesto se avevo ricevuto già qualcosa, e, infatti, nel 1993 ero stato fatto commendatore per il mio impegno contro la pirateria. Anzi, ricordo che fu una cosa molto pesante, ricevetti minacce davvero terribili all’epoca, fu un grande rischio da parte mia, mi esposi molto e fui premiato come commendatore. Ora, da commendatore si passa a Grande Ufficiale della Repubblica. Dopo ci sta anche Ufficiale di Gran Croce, ma quello lo danno solo a Rita Levi Montalcini, ai Presidenti, io mi fermo qui!  Comunque,  è stata davvero una gran bella cosa, mi sono sentito inadeguato, eravamo solo sei persone, mi sono detto ‘Ho lavorato, ho lavorato tanto’, stavo in taxi con Gianna,  le dicevo ‘Beh, vedi, ho lavorato, stavo poi al telefono ancora mezzo rimbambito da questa cosa e, invece di metterlo in tasca, l’ho dimenticato in taxi. Insomma, l’ho perso!  Ho chiamato tutto il pomeriggio tutti i taxi di Roma, non ricordavamo quale era. Niente, non c’è stato niente da fare, a Roma non se ritrova niente! Insomma, me so’ rovinato il pomeriggio, mi sono ritrovato in fila al negozio di telefonia con il numerino per prendere la sim, da Grande Ufficiale della Repubblica ad uno dei tanti italiani sempre in fila”.

 

Roberto Leofrigio