Charlie says: c’era una volta l’american psycho

“Molte persone che conoscono Los Angeles pensano che gli anni ’60 siano finiti nel 1969”.

È questa dichiarazione provenente da The white album di Joan Didion ad aprire Charlie says, che, pur essendo datato 2018, va ad aggiungersi allo stuolo di lungometraggi concepiti in occasione dei cinquant’anni trascorsi dal massacro in cui perse la vita l’attrice Sharon Tate, comprendente anche Sharon Tate – Tra incubo e realtà di Daniel Farrands e il chiacchieratissimo C’era una volta a… Hollywood di Quentin Tarantino.

Perché, come il titolo stesso lascia intuire, è sulla carismatica figura del Charles Manson responsabile dell’organizzazione dell’omicidio della allora compagna di Roman Polanski che si sviluppa la circa ora e cinquanta di visione che, messa in piedi dalla Mary Harron regista di American psycho, attinge dal testo The family, scritto da Ed Sanders.

Un Charles Manson in questo caso efficacemente incarnato dal Matt Smith noto per la serie televisiva Doctor Who e che, visto come un fascio di luce dai propri seguaci che lo venerano quasi in qualità di divinità, ordina loro di lasciar andare il proprio ego, spiegandogli, allo stesso tempo, che nessuno nella combriccola appartiene a nessuno, eccetto lui, che invece li possiede tutti.

Un Charles Manson di cui vengono anche mostrati i brevi incontri con il produttore musicale Terry Melcher e con il batterista dei Beach boys Dennis Wilson, ovvero Bryan Adrian e James Trevena Brown, e che la Harron ci racconta nella progressiva emersione della sua controversa personalità attraverso le conversazioni tra la psicologa Karlene Faith alias Merritt Wever e Lulu, Katie e Sadie, tre giovani donne condannate all’ergastolo per essere state, appunto, partecipi all’uccisione.

Tre donne rispettivamente interpretate da Hannah Murray, Sosie Bacon e Marianne Rendón e che, protagoniste di una narrazione continuamente alternata tra il prima e il dopo l’arresto, lasciano emergere le proprie complesse quanto fragili e manipolabili psicologie man mano che avanza l’operazione, a proposito della quale colei che si trova dietro la macchina da presa precisa: “Non è un’opera a difesa delle colpevoli. Ho cercato di comprendere come e perché queste giovani donne siano arrivate a fare cose terribili. Il film è una storia drammatica sugli anni Sessanta. Ha attinenza con i giorni nostri e la gente troverà dei parallelismi con eventi di oggi, ma parla anche di questioni senza tempo, di abuso e dominio, cose che sono successe nelle famiglie, nelle relazioni e nelle società nel corso della storia”.

E, ovviamente, non manca neppure il momento dedicato alla notte dell’aggressione; ma tirato in ballo soltanto brevemente, in quanto alla Harron non interessa indugiare sul lato strettamente macabro dell’accaduto, bensì approfondire il contesto sociale della fine della cosiddetta “summer of love” e i moventi psicologici attraverso un lento incedere atto a privilegiare il dialogo.

Catturando l’attenzione dello spettatore fotogramma dopo fotogramma di Charlie says, forse leggermente tirato per le lunghe, ma, di sicuro, più compatto e meno dispersivo rispetto al sopra menzionato agglomerato nostalgico-cinefilo-surreale tarantiniano.

 

 

Francesco Lomuscio