Christian De Sica al Terni Pop Film Fest: “Carlo Vanzina era geniale”

Volto simbolo dei film di Natale da quando, nel 1983, interpretò Vacanze di Natale del compianto Carlo Vanzina, il romano Christian De Sica è, senza alcun dubbio, uno degli attori italiani che maggiormente hanno saputo far ridere il pubblico davanti al grande schermo. Ospite al Terni Pop Film Fest, dove gli è stata dedicata una retrospettiva riguardante la sua collaterale attività di regista e dove ha ricevuto un premio alla carriera, ha incontrato la stampa presente.

 

Il Terni Pop Film Fest è un festival di cinema popolare. Cosa ne pensi?

Devo soltanto dire grazie, perché, per me che sono il re del nazionalpopolare, avere un festival che parla di questo cinema è una grande festa. Anche perché il Festival di Cannes ha tutti i generi, invece, qui da noi, non si sa perché i teorici del cinema vogliono soltanto parlare di film polacchi, giapponesi, autoriali, mentre vi sono anche Franco e Ciccio, Bud Spencer, Carlo Verdone, me e Boldi, che poi siamo un po’ la colonna portante della cinematografia italiana, perché, oggi come oggi, se non ci fosse stato Checco Zalone stavamo tremando per gli incassi. Si fanno troppe commediole e troppi film autoriali. Il cinema d’autore c’era anche ai tempi di Antonioni, di Fellini, di Visconti e di mio padre, che, purtroppo, non ci sono più. Oggi ci sono Paolo Sorrentino e altri, ma è giusto fare un festival di cinema popolare, perché il cinema è anche quello.

 

Come regista, cosa significa girare un film popolare?

Quando ho girato dei film, ho sempre scelto quelli che non mi avrebbero fatto fare come attore. Il mio primo da regista si intitolava Faccione, la storia di una cicciona interpretata da Nadia Rinaldi. Questa sera, qui a Terni proiettano Simpatici e antipatici, che poi è diventato un cult che racconta il microcosmo di quelli che sono i circoli della media borghesia a Roma, ma non ha avuto nessun successo, in quanto è partito fortissimo, però lo hanno ritirato perché Gianfranco Funari con gli occhiali sembrava Previti e veniva arrestato mentre giocava a tennis. Poi lo hanno visto tutti sul web e i ragazzi conoscono a memoria tutte le battute del film. Ora, poi, ho fatto questo nuovo film in uscita a Natale.

 

 

In che misura, nei tuoi film da regista, hai portato qualcosa di personale? Forse il più personale è The clan

Che poi, The clan è quello che è andato peggio, perché quel progetto nacque come spettacolo teatrale, ma i produttori Guido e Maurizio De Angelis decisero di farne un film, sebbene gli avessi fatto notare che in Italia i musical al cinema non piacciono. Cabaret con Liza Minelli, per esempio, è stato un caso perché cantavano in un luogo deputato, non per strada. È un genere talmente americano che in Italia non ha mai funzionato.

 

Come spettatore quali registi, attori e film apprezzi?

Dogman, per esempio, mi è piaciuto moltissimo, come pure La grande bellezza. Ci sono autori che sono straordinari, l’unica critica che posso fare alla nuova generazione di attori è che fanno troppi film. Nino Manfredi mi disse che, se vuoi avere successo, come attore devi interpretare un film all’anno, invece oggi ognuno ne fa sei o sette. Due anni fa Bova ne ha interpretati otto, poi si è fermato, e, alla fine, questi film sembrano tutti uguali. L’altra sera sono andato a vedere The nun e i trailer annunciavano un film con Micaela Ramazzotti e Alessandro Gassman, mentre nel cinema c’era il manifesto di un altro film con Micaela Ramazzotti e Fabio De Luigi. Ma come si fa? È troppa roba, poi succede che, appunto, sembrano tutti filmetti uguali. Li consigliano male questi ragazzi, perché poi si bruciano. Prima era di moda Marco Giallini, poi Favino è andato a Sanremo ed è diventato di moda lui. Poi adesso va di moda Alessandro Borghi, prima, invece, c’era l’altro giovane attore di cui mi sfugge ora il nome.

 

Luca Marinelli?

Sì, Marinelli. Poi che succede? Che la gente non va al cinema, guarda la televisione e appena esce un blockbuster americano che non vale nulla lo va a vedere. Speriamo che, poi, vadano anche a vedere il mio film quest’anno a Natale. Vedi, anche io potrei fare tre film all’anno, perché me li offrono, ma non li faccio, per portare avanti la famiglia ne interpreto uno, poi mi dedico al doppiaggio, prendo parte ad una fiction e mi cimento nel teatro e nelle serate. Certo, con il teatro guadagni settanta euro al giorno, con il cinema mille a posa, le paghe sono quelle.

 

Anche se hai iniziato il mestiere di attore al servizio di diversi registi quali Pasquale Festa Campanile o Pupi Avati, la tua carriera come volto della commedia è sicuramente iniziata con il personaggio di Felicino in Sapore di mare, nel 1983. Che ricordo hai del regista Carlo Vanzina?

Carlo lo conoscevo da quando avevo quattordici anni, perché lui, il fratello Enrico, Marco Risi e io ci frequentavamo già da ragazzini, quindi abbiamo cominciato insieme il cinema, poi un giorno mi chiamò per fare un personaggino in Viuuulentemente mia con Diego Abatantuono e Laura Antonelli e, quando ha visto che sapevo fare questo mestiere, mi ha preso per Sapore di mare. Io gli devo tutto, perché avevo fatto tanti film, di cui il primo, Blaise Pascal, con Roberto Rossellini perché ero fidanzato con sua figlia, ma lui mi ha dato la notorietà, anche perché poi è arrivato Vacanze di Natale con De Laurentiis. Pensa che, un mese prima di morire, il povero Carlo venne da me per portarmi la storia di un film da fare in co-produzione con la Francia, La tigre siberiana, e quella sera tutti e due abbiamo fatto finta di nulla, perché entrambi sapevamo che lui già stava malissimo. Ancora conservo nel telefono un messaggio in cui mi ha scritto “Spero presto di tornare a ridere insieme a te”. Carlo era un amico, un pezzo di cuore, poi, a parte la signorilità e la generosità, ha inventato l’instant movie. Lui girava i film in cinque settimane; a volte, correva un po’ troppo e gli dicevo “Me ne fai fare un’altra?”, ma lui rispondeva “No, poi la doppi”. Però era geniale.

 

Come è cambiata la comicità dai cinepanettoni degli anni Ottanta a quelli di oggi?

La comicità è come la moda, si respira nell’aria. Oggi i film con Franco e Ciccio non avrebbero più successo perché i tempi sono diversi, il ritmo sullo schermo oggi è più serrato e la mentalità è meno provinciale e meno ottimista rispetto a quella dei film italiani di allora. Io ricordo un film con Aldo Fabrizi in cui diceva “È  domenica, oggi c’è il pollo”, pensa oggi se si scrivesse una battuta del genere, è tutto un altro mondo. Quindi, la comicità cambia in base al paese, però noi guitti degli anni Settanta e Ottanta avevamo più coraggio, perché spingevamo l’acceleratore sulla comicità e non ce ne fregava niente, molte volte anche sbagliando e facendo figure barbine. Al di là di Checco Zalone, che è un outsider, i nuovi comici hanno paura di far ridere perché altrimenti non vincono il David di Donatello o il Nastro d’argento, quindi sono politicamente corretti. Questo perché se oggi un attore come Valerio Mastandrea vince il David di Donatello, gli danno i soldi e gli fanno fare un altro film, mentre a me che non lo vinco non mi danno nulla. Ecco perché si fanno tanti film, perché ti danno i soldi se vinci premi, quindi in questi festival si danno i premi tra loro e continuano a fare lungometraggi che, spesso, sono inutili. Capito come è tutto malsano in questo paese?

 

Secondo te come è cambiato il gusto del pubblico negli ultimi quarant’anni?

È peggiorato, perché prima il pubblico leggeva le recensioni, andava in libreria, si comprava i libri, comprava i dischi nelle discoteche e si faceva una cultura. Oggi, purtroppo, è facile farsi una cultura perché c’è il web, ma si fa una grande confusione perché compri un po’ di tutto e, alla fine, non te la fai. Poi, il paese è un pochino tutto più sceso, perché, anche per quanto riguarda la moda, una volta vedevi tutte donne meravigliose, oggi, invece, entri in un locale e loro sembrano tutte mignotte e gli uomini sembrano sciatori. Li vedete più in tv gli show di Antonello Falqui con Mina? Io ormai in tv vedo solo Grandi fratelli, gente incazzata e che non sa fare niente. È tutto un cattivo gusto che dilaga in ogni settore. La mia generazione, quando ero giovane, seguiva la gente anziana. Io sapevo chi era William Holden o Alfred Hitchcock, oggi molti giovani non sanno chi era Mastroianni, ma magari sanno chi è Frank Matano. Da un lato abbiamo giovani colti, ma dall’altro altri che non sanno nulla.

 

Secondo te c’è una speranza?

Io penso di sì, perché gli italiani sono geniali, improvvisatori, navigatori e teste di cazzo (ride).

 


Francesco Lomuscio