CISCO: incontro e scontro tra “Indiani e Cowboy”

Estetica che si fa liquida un poco, che forse un poco mi leva via un appiglio sicuro, su cui contavo. E con questo voglio solo dire che mi mancano appena quei riferimenti classicamente irlandesi con cui ero abituato ad ascoltare la canzone di CISCO. Ma è anche vero che la sua voce inconfondibile e quel certo modo di scrivere restituisce il giusto segnale alla rotta. E la rotta questa volta punta verso una terra molto meno “verde” dell’Irlanda. CISCO, ormai solista da anni dopo la grande famiglia dei Modena City Ramblers, cantore, cantautore, compagno partigiano di una società che resiste (dovrebbe) e che cerca comunque di stare al di qua di un muro (parola chiave di questo ultimo disco), artista che canta e resiste da una parte dove c’è un popolo di indiani che non ci sta all’omologazione del potere costituito dei cowboy. Almeno è così che mi è venuta di leggerla… e la sua non è canzone politicamente schierata, almeno non in modo letterale del termine, non in modo televisivo ed elitario tanto per capirci. CISCO tra le righe sa bene come affilare la punta ai messaggi di appartenenza e di comunanza, perché lui è figlio del popolo, pellegrino di vita ed estraneo a convenzioni di mercato. Musica che viene dal Texas, questa volta, musica che di americano si veste dimostrando di non essere affatto classista e fermo nei confini prevedibili a priori. Non è snob verso un certo modo di stare al mondo ma è combattente e fiero di essere un indiano. E questo nuovo disco lo ha titolato “Indiani & Cowboy”: lui che a quel grande muro americano ci è arrivato per davvero oggi ci canta la discriminazione sociale che è ben più sottile e grave del banalissimo colore di pelle.

Canta il decadimento culturale, canta e ci esorta tra le righe (e neanche tanto) a prendere coscienza di quanta banalità stiamo sposando nelle nostre vite, ci fa capire il rispetto e l’accoglienza delle differenze e forse, in un futuro simbolico, canta e spera che ogni muro si sgretoli così da non renderci tutti uguali ma tutti figli di una stessa terra, ognuno con la propria faccia e con il proprio colore. Accettazione: ecco l’arma per eliminare ogni distanza. Il suono prodotto in collaborazione con Rick del Castillo ha molto di quel cinema pulp di cui lui è protagonista nei suoni ormai da tempo, ha molto del rockabilly e di quel certo modo di codificare il folk rock da quella parte del mondo. E ci troviamo dentro anche tante ballate d’aria e di esempio sociale come la bella “Don Gallo” (il cui riferimento è evidente) o la commovente title track del disco. E poi il nostro bel paese ce lo racconta come al solito facendo cronaca, guardandosi attorno in “Siete tristi” (davvero dura e spietata, senza peli sulla lingua) o in “Non in mio nome”, oppure ancora sfogliando pagine di proletariato (se mi si permette la parola delicata) come in “Guido Rossa”.
Un ascolto importante per questa attualità che si piega sempre di più al conformismo e sempre meno alle ricchezze individuali. Sarà un eterno incontro/scontro quello tra indiani e cowboy.