Città Novecento: la Colleferro di Haber e Biello

La geografia emozionale di Colleferro secondo l’ambizioso ed erudito regista Dario Biello passa attraverso l’aura contemplativa nel docufiction Città Novecento.

In altre parole la capacità del territorio eletto ad attante narrativo ed evocativo di riflettere l’altalena degli stati d’animo e le relative palingenesi intime ed epocali imbocca due strade diverse. Agli antipodi. Il punto è capire se queste due strade, quella del cuore da una parte, quella del cervello dall’altra, la registrazione documentaristica degli eventi per un verso, l’elaborazione poetica per quello opposto, risultino diverse in chiave speculare.

Inoltre il rischio, ammesso che si tratti di un’opposizione studiata, voluta a tavolino, ed ergo programmatica, che gli stilemi dell’opera a tema finiscano con l’invalidare il carattere misterioso della poesia è tangibile. Il carattere d’autenticità nel documentario è scontato. Nel film di finzione, al contrario, diventa poesia se alla concretezza dello scandaglio di stampo veristico si va ad appaiare la forza significante dell’imprevedibilità. Di qualcosa che sfugge alla piattezza razionalistica. A ciò che, in buona sostanza, risulta prevedibile. In questo il Neorealismo ha fatto scuola. Ripercorrerne la falsariga per eludere il rischio di pagare dazio all’aridità dei timbri sin troppo asciutti ed essenziali è lecito. Annoverarne lo slancio nella cifra stilistica di un autore con la “a” maiuscola, pertanto estraneo all’accidia malcelata del carattere d’ingegno creativo attinto ai numi tutelari di sicuro richiamo, non sta francamente né in cielo né in terra. In ultima analisi è una questione di carattere. Non di cuore. Né tantomeno di cervello. Valori aggiunti sul versante, piuttosto risaputo dell’umanitarismo associato alla crescita degli spazi industriali nelle zone un tempo di campagna, come per l’appunto quella intorno a Colleferro, il primo, e sotto l’aspetto della lucidità speculativa il secondo. Ovviamente l’uno non esclude l’altro. Le aggiunte invece vanno prese con le pinze: se si aggiunge, per esempio, poesia alla poesia si cade nel poeticismo. E ci si allontana quindi dalla virtù di sorprendere con un intreccio poco spettacolare eppure denso d’intensi significati ed echi profondi anziché col dinamismo dell’azione caro a chi nella vita di tutti i giorni, citando il Grande Bardo ossia Shakspeare, fa molto rumore per nulla. L’effigie delle nubi sul territorio convertito a location parlano già chiaro e tondo.

La postilla della voce di Alessandro Haber nelle vesti di narratore è degna di nota solo ed esclusivamente per chi rimpiange nei documentari veri e propri l’assenza della psicotecnica degli interpreti d’alta scuola. La presenza di Haber nel territorio in questione, il confronto con l’immagine panteistica di fine Ottocento, le modalità esplicative ravvisabile nelle parole contenute nel componimento L’Alberello di Gabriele D’Annunzio (“O tu, ne l’aria grigia, torto e senzafiori, alberel di Segni Paliano che deridendo accenni di lontano alla inutile nostra impazienza…”) tradiscono a botta calda l’impasse dei segni d’ammicco. Che partono in quarta. Invece di cominciare in sordina riservandosi il meglio nell’avvicendarsi palmo a palmo delle notazioni sentimentali, delle vicende umane, delle idee che si articolano intorno allo spazio campestre destinato step by step ad assumere l’identità specifica della Città nel cosiddetto secolo breve. Un secolo, il Novecento, accorciato dalle due guerre mondiali, dagli eventi planetari del tutto eccezionali, nel bene e nel male, della lotta del sangue contro l’oro, del popolo contro le banche, del conservatorismo contro le banche. L’ovvia ma rimarchevole conquista è individuata nel passaggio da una società contadina a una società industriale. Fin qui non c’è nulla da contemplare. E quindi la poesia c’entra come i cavoli a merenda. Escludendo il rischio tuttavia di pagare dazio all’ampollosità del sentimentalismo. L’istrionismo recitativo di Haber, sebbene ben temperato, palesa l’ascendenza teatrale. Incompatibile perciò con le dinamiche interiori del lavoro di sottrazione. Che va subito al punto svelando i moti dell’animo connessi a un determinato territorio. A differenza di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado, che hanno unito le forze (è il caso di rimarcarlo) per conferire al documentario Il sale della terra la virtù di scrivere con la luce e trasformare i luoghi riflessivi – con le strade acciottolate e le montagne verdi della regione di Minha Gerais in Brasile sugli scudi – in luoghi dell’anima, il rischio di concedere più del lecito all’autorete dei luoghi comuni affiora spesso e volentieri nel modo di girare mandato ad effetto da Dario Biello.

Le scelte dapprincipio legate ai raccordi del montaggio alternato, l’effigie in slow motion di D’Annunzio nella stazione, l’interazione tra suoni diegetici ed extradiegetici che privilegia il valore simbolico del treno nel cinema dei primordi accorciando per giunta le distanze tra i comuni di Segni e Paliano spezzano più d’una lancia alla necessità dei campi lunghi di fordiana memoria. Emerge dunque il materiale umano ed evocativo da contemplare. L’atmosfera d’epoca è garantita dallo zelo scenografico e dall’impegno della produzione. Ai valori formali corrisponde la densità contenutistica. L’errore di non lasciar parlare le immagini, gli eloquenti silenzi, preferendo aggiungere a un linguaggio sufficientemente esaustivo le spiegazioni dei vari esperti (da Massimo Cacciari ad Antonio Pennacchi) sottraggono all’assunto la spontaneità di tratto riscontrabile nell’aura realmente contemplativa sorretta dalle motivazioni storiche. L’arcano da svelare è assente: tutto è chiaro, manifesto; la cura scrupolosa, talora scaltra, dei dettagli non consente alla suspense meditabonda di accrescere sul serio la curiosità degli spettatori all’oscuro di parecchie cose: l’avviamento dei nuovi stabilimenti, la proliferazione dei due comuni così lontani così vicini riuniti a Colleferro, il villaggio operario, l’apporto operoso ed estroso d’ingegneri visionari e coraggiosi passati alla storia. La storia di Colleferro è poco nota. Il carattere d’ingegno creativo non affiora neanche di sguincio. Al carattere d’autenticità si aggiunge nella seconda parte il carattere sbrigativo del bozzetto antropologico. Città Novecento partito al galoppo chiude al piccolo trotto.

 

 

Massimiliano Serriello