Presentato alla quindicesima edizione della Festa del Cinema di Roma, nella sezione Alice nella Città, il documentario Climbing Iran non va certo allo sbaraglio.
L’ambiziosa regista Francesca Borghetti, quantunque all’esordio dietro la macchina da presa, sembra saperla lunga. In virtù dell’esperienza maturata come sceneggiatrice, attenta a cogliere le composite sfaccettature della crudezza oggettiva. Grazie anche agli stilemi dell’antropologia culturale. Sviscerata ai tempi dell’università.
L’intento di porre in risalto la caparbietà della scalatrice iraniana Nasim Eshqi, a dispetto degli immancabili mugugni dell’autocrate governo, avverso all’affrancamento del gentil sesso nello sport estremo, può dirsi in parte riuscito. Le note intimiste dell’incipit, che testimonia la complicità femminile per mezzo del rapporto epistolare concepito nell’era delle nuove tecnologie, i fluidi carrelli in avanti, il rinvenimento delle barriere poste da Madre Natura, la voce fuori campo dell’autrice autoctona, il ricordo del primo incontro con l’insolita free-climber e “lo sguardo dritto alla cima” compongono dapprincipio un quadro d’ampio respiro. In grado d’ingenerare molte attese per l’immediato prosieguo. A fare invece da spia al fiato corto dell’impianto narrativo è invece il ricorso agli ormai vetusti precetti del cinema-veritè. In possesso, a rigor d’analisi, di ben altro spessore evocativo. Al contrario, infatti, dell’illustre modello di partenza, contraddetto a lungo andare dalle pieghe programmatiche del racconto, volto a ripercorrere le tappe giovanili dell’eroina protagonista tramite diverse dichiarazioni frammiste ai prevedibili fermi-immagine a suon di musica, l’austerità dell’idonea antiretorica cede malauguratamente il passo agli enfatici cascami dell’ennesima ricerca del tempo perduto.
L’effigie dell’imperterrita grimpeur, restia a coprire la testa col tradizionale foulard e frequentare le apposite palestre prescelte per il training muliebre, cambia poi di nuovo salsa. Il viaggio nei luoghi prediletti, dove gettare il cuore oltre l’ostacolo, con la forza di gravità, ritenuta “una sorta di divinità imparziale”, che tira verso il basso chiunque ci provi, costeggia la funzione diegetica degli spazi attivi. Restando però in superficie. Ad approfondire l’identità specifica delle ardimentose imprese, preparate nella fase teorica dallo studio delle scienze motorie e nell’imprescindibile prassi dall’entusiasmo tipico degli autodidatti, avrebbero dovuto provvedere i tratti caratteristici della geografia emozionale. Che conferiscono sotto il profilo introspettivo un fulgido valore aggiunto. Allo scopo di comprendere i modi d’agire congiunti all’utopistica smania di dominare gli elementi. L’interazione tra gli scrupolosi piani ravvicinati e i vertiginosi campi lunghi, che misurano l’audacia d’inerpicarsi sulle proibitive cime dei monti patrii e scorgervi il sostegno giusto per continuare a tener vivo il sogno, palesano un’immediata concretezza. Necessaria ad abbinare al colpo d’occhio fornito dalla dinamica figurativa i coinvolgenti palpiti della suspense. Nondimeno il fiume di parole della voice-over di Nassim, fiera di aver inciso sulle vette a strapiombo dei personalissimi tragitti imboccati senza alcun indugio, perdendo il sedizioso smalto rosa shocking dalle unghie delle mani avvezze all’immane sforzo, finisce per screditare gli eloquenti silenzi.
Il progetto comune di portare la nuova amica nel Bel Paese per aprire una via pure sulle Alpi innesca l’egemonia del realismo descrittivo su quello fenomenico. Con il risultato di sciupare, dopo l’efficacia del lavoro di sottrazione, anche l’identificazione degli spettatori nel processo di coordinamento psico-fisico e spirituale sui suggestivi rilievi. Lo scandaglio ambientale, nelle strade affollate, nelle librerie, negli interni domestici, che sostituiscono temporaneamente gli itinerari pietrosi, contempla ritagli d’esistenza troppo brevi ed esornativi per costituire una variante carica di senso. Il ritorno alla scoperta dell’alterità, in ubbidienza all’instancabile richiamo dell’avventura, rimette quindi in sella la trama. Anche se gli affascinanti gradi di difficoltà nella tecnica di caricamento degli appoggi sulle sporgenze delle rocce sono rinviati sine die. L’approdo alla destinazione prefissa, impossibile da seguire ancora col cuore stretto, traligna pertanto le schegge d’amore e d’adrenalina ivi connesse in ampollosi siparietti. Dettati dalla fretta di raggiungere il diapason ed emanare l’armonia con le giogaie. Simbolo d’una libertà da conquistare palmo a palmo. Peccato che l’epilogo di Climbing Iran trascini persino l’osservazione sociologica giustapposta alle velleità liriche nell’impasse delle opere a tema. Avvezze a confondere l’inno liturgico ed empatico della vera poesia con l’infecondo rimpiazzo del poeticismo di turno.
Massimiliano Serriello
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