Il prigioniero coreano, Kim Ki-duk rinuncia al suo stile per denunciare le nefandezze del potere

La premessa indispensabile per tentare un’analisi dell’ultimo film di Kim Ki-duk, Il prigioniero coreano, consiste nel precisare che è un’opera che si allontana, e di molto, dal consueto stile cui il regista, molto amato nel nostro paese, ci ha abituato. Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia e al Festival di Toronto, il nuovo lungometraggio del celebre cineasta è un accorato pamphlet in cui si stigmatizza, senza andare per il sottile, la sostanziale complementarietà dei due regimi coreani: quello del Nord, anacronisticamente arroccato a un passato definitivamente svanito, e quello del Sud, animato da una smania incontenibile di scimmiottare il modello capitalista imposto dagli Stati Uniti (di fatto, a tutt’oggi, la Corea meridionale è sostanzialmente un protettorato americano).

Il protagonista (Ryoo Seung-bum), un pescatore la cui imbarcazione, per una drammatica fatalità, viene risucchiata dalla corrente e condotta oltre il confine, verso il sud, si ritrova stritolato nel delirio paranoico dei due schieramenti antagonisti, i quali, al netto delle enormi differenze che pur li contraddistinguono, sono accomunati dall’esigenza di ripararsi dietro un’imponente barriera immunitaria che impedisca il contagio dei propri stili di vita, ritenuti gli unici possibili. Architettato il robusto prologo – a dire il vero, un po’ schematico – Kim Ki-duk ha gioco facile per tessere la trama di una storia senz’altro drammatica in cui, con stilemi che non si allontanano dalla logica di una rappresentazione piuttosto verosimile, il soggetto erra tra una situazione e l’altra, testimoniando, attraverso l’inusitata violenza subita, che ogni forma di potere tende a opprimere e infliggere sofferenza a chiunque non sia saldamente inserito nell’ordine precostituito.

Lo spettatore capisce quasi subito dove si andrà a parare, ma la parziale prevedibilità dello sviluppo della narrazione non costituisce un limite, un difetto da criticare, semmai è la risultante di un rapporto di causa ed effetto utilizzato per dare brillantemente corpo all’insensatezza di un mondo in cui la contrapposizione politica rivela una miopia di fondo insuperabile. Infatti, al lato tragico si giustappone fortemente quello comico, laddove l’isterismo dei metodi utilizzati dai “controllori” per verificare se il mite pescatore sia una spia o no tradisce, nel suo eccesso, un umorismo involontario. Un delirio paranoide incontrollabile che, agito fino in fondo, produce inevitabili effetti comici, anche se, è bene precisarlo, Il prigioniero coreano è un film drammaticissimo, dove lo spazio esiguo di confine (una soglia sottilissima) percorso dal protagonista è segnato da una crepa in cui non si può che sprofondare, fino a precipitare nell’abisso del mistero del Potere (seguendo le potenti suggestioni del “cittadino” di Elio Petri).

Il soggetto, all’interno di questa feroce dinamica, viene compresso, stritolato, fino a svanire in una sorta di evaporazione: Kim Ki-duk, in tal senso, è abilissimo a dare forma all’invisibilità di un penoso processo di annientamento, per poi, alla fine, restituirlo al suo stato iniziale. Il potere è ovunque, trasversalmente, presente spettralmente e sempre pronto a materializzarsi nelle sembianze di un orrore impossibile da evitare. E non s’inganni lo spettatore, credendo che il regista aneli una futura riunificazione delle due Coree: non sarebbe di certo questa l’opzione che potrebbe porre fine al paradigma dell’esercizio incontrastato di un ignobile dominio che riduce chi lo subisce al ruolo di miserabile pedina da muovere secondo le necessità e le convenienze.

Il prigioniero coreano è un film lineare, onesto ed efficace; un’opera più che mai sincera con cui Kim Ki-duk rinuncia a se stesso pur di denunciare le nefandezze di taluni rapporti di forza, che da sempre opprimono e impediscono il delinearsi di nuovi orizzonti. È proprio ciò, dunque, a cui si mira: pensare l’impossibile, un mondo liberato dal Potere e attraversato dall’incontenibile energia della potenza.

 

Luca Biscontini