Cosa resta della rivoluzione: carezza ideologica e graffio satirico

Mettere una carezza in un pugno, sulla scorta dell’omonimo album musicale di Adriano Celentano, è conciliabile con la carica dissacratoria della commedia canzonatoria?

La versatile Judith Davis, cimentatasi in Cosa resta della rivoluzione nelle duplici vesti di regista e attrice protagonista, fornisce una replica perlomeno curiosa. L’innesto della voce fuori campo, che cadenza l’incipit, è ormai vecchio come l’alleluia. Lo scandaglio ambientale sbrogliato in piano-sequenza, mentre Angèle guida la bicicletta in mezzo ai rumori del traffico e all’intolleranza collettiva, sembra spinto da propositi emozionanti. Ma il carattere troppo sbrigativo della messa in scena impedisce alla correlazione tra personaggi e habitat di raggiungere l’acme.

La necessità di ricominciare da capo per l’immusonita donna, accantonata sul posto di lavoro per far spazio a uno stagista conforme ai tirocini formativi dai costi meno alti, favorisce l’approfondimento narrativo. Senza restare in superficie costeggiando scontati richiami ad arcinoti woman’s pictures d’oltreoceano. L’anatema lanciato inopinatamente contro gli ipocriti radical chic, che la mettono alla porta rimpiangendo al contempo l’epoca della loro giovinezza con la fantasia al potere, dà l’opportuno spazio all’altra campana. Stufa d’inghiottire amaro e sputare dolce. Il ricorso alla camera a mano per coglierne appieno lo stato di agitazione, inasprito dalle pose vanesie degli ex sessantottini, bollati alla stregua d’insopportabili emuli di Michael Jackson ostili all’idea d’invecchiare, alza senza alcun dubbio l’asticella. Le inquadrature in soggettiva, la tecnica di ripresa dell’automavision, con zoom in avanti scevri dagli schemi delle opere confezionate, l’avveduto carattere d’autenticità degli interni domestici, in cui l’intesa femminile smussa talora la punta di spina dell’indomito risentimento, non vanno certo in paradiso in carrozza; tuttavia si ritagliano a buon diritto dei ruoli di rilievo nella densa scrittura per immagini. L’amarcord compiuto con l’approdo dei filmini in super 8 e il ripiego nella voice over attesta però la marcia all’indietro connessa al coefficiente d’intelligibilità: la paura di perdere il beneplacito delle platee allergiche alle doti d’osservazione, in grado di riuscire ad assicurare una fulgida valenza creativa al fertile mix d’estro scenografico ed empiti psicologici, invalida così l’acume degli umori serpeggianti in attesa di riscatto.

I siparietti in strada insieme a un’attivista avvezza alla buffoneria uniscono la tendenza logorroica dell’universo proletario caro a Ken Loach, aedo della working class anglosassone, con accenti populisti ben più ordinari. La mancanza delle debite soluzioni di continuità, allo scopo d’imprimere all’irruenza tragicomica delle proteste sociali un riverbero alieno al divario dei timbri stilistici adottati per l’occasione, getta dalla finestra la chance di scandagliare in maniera stravagante l’ovvia altalena di scoramento ed euforia. Gli spediti movimenti di macchina, che catturano le risposte mimiche durante i verbosi collettivi organizzati per smuovere le cose e conferire maggior significato al diritto al merito, rientrano nell’ordinaria amministrazione. A rivelare l’anima delle persone provvede l’alacre cura dei dettagli. Con l’oggettino rinvenuto al Rue de Montreuil di Parigi capace d’innescare ottime dinamiche intime. Giacché congiunte al fermo desiderio di vincere le sclerosi mentali e l’unanime angoscia anteponendo il valore della semplicità, ed ergo dei semitoni appena sussurrati, all’inconsistente caos delle grida di protesta. I momenti di solitudine giustapposti al bisogno di toccare la corda giusta, e trarre vantaggio dal sofferto sforzo di sincerità, mancano della sollecitazione etica necessaria a garantire il passaggio dal sarcasmo al realismo poetico. La componente luministica, che privilegia agli incisivi contrasti chiaroscurali dell’inizio la prospettiva di un mutamento di rotta sul versante dei sentimenti e l’appiattimento focale ad esso congiunto, gira a vuoto. Con le frecce di Cupido volte a colorare di rosa il grigiore dell’esistenza, gremita d’impedimenti strazianti ed equivoci esilaranti, l’inventiva latita.

Le contraddizioni, al contrario, regnano sovrane. Le liti in famiglia, con la sorella stufa di offrirle un ramoscello d’ulivo per poi ricevere accuse colme d’acredine, la velleità delle battaglie sociali, guastate dal solito pluralismo dei convincimenti personali, e l’immancabile effigie della panchina, che mal accoglie il riposo dell’insoddisfatta guerriera, finiscono addirittura col trascinare nella noia. Il colpo di coda, affidato alle ragioni del cuore preferite alle meditazioni, quantunque tradisca un flebile vigore drammatico, contribuisce ad animare la vicenda. Scongiurando, se non altro, il rischio che gli stereotipi, insieme al tedio di piombo, grondino banalità. L’antidoto alla pesantezza riposto nella carineria, anziché nella ricerca della felicità conquistata con la coscienza di sconfiggere gli schiaffi del destino grazie alla pervicacia morale, palesa il declino di Cosa resta della rivoluzione. Le prospettive beffeggiatrici, frammiste al ritratto impietoso del disinganno, cedono le armi alla sarabanda dei luoghi comuni. Il tentativo di sublimarli negli enfatici chiarimenti, al pari dell’icasticità dei caratteri acuiti dai conflitti generazionali , non lascia tracce rilevanti. I brindisi in zona Cesarini, le riunioni da ultimo all’insegna della calma dei forti, il lavacro purificale, nei panni del calumet della pace, e le coccole in acqua con la dolce metà, sulle note di una colonna sonora avvezza alla retorica, chiudono il cerchio. Delineando alla brava l’asprezza del profilo di Venere. Racchiuso nei limiti del cinema d’intrattenimento che insegue la fittizia elezione stilistica con l’incongruente copia e incolla di venature asciutte ed enfatici accenti. Zeppi di miele e poveri di fosforo.

 

 

Massimiliano Serriello