Da 5 bloods – Come fratelli: il re del black cinema passa a Netflix

Ritenuto a buon diritto il re del black cinema, sebbene l’Oscar vinto da Barry Jenkins con Moonlight abbia ribadito che spesso gli allievi superano i maestri, Spike Lee sembra voler continuare a battere sullo stesso chiodo con Da 5 bloods – Come fratelli, disponibile su Netflix dal 12 Giugno 2020.

La vicenda dei quattro veterani del Vietnam – Melvin, Otis, Paul ed Eddie – in cerca del commilitone scomparso mezzo secolo prima, Norman, e fermamente decisi ad andare pure al sodo, anteponendo la materia allo spirito, soffre di alcuni squilibri piuttosto curiosi. Il desiderio di mettere molta carne al fuoco, forse sin troppa, non toglie comunque nulla alla gradevolezza del racconto nel racconto.

La sceneggiatura di ferro, scritta dall’inesauribile Spike insieme agli attenti Danny Bilson, Paul De Meo e Kevin Wilmott, risulta davvero ben calibrata in virtù soprattutto della capacità di cogliere dal vivo l’autentica vena malinconica degli amici alla ricerca del tempo perduto. Niente a che vedere stavolta, nonostante l’omonimia dello screening, con l’arguta poetica dell’incomparabile Marcel Proust: Spike Lee cade nel poeticismo nel passaggio dal plot alla scrittura per immagini. Nondimeno gli slanci polemici ed empatici rimangono quelli dei tempi migliori. L’incipit, con lo scaltro ed emozionante corredo dei pezzi da telegiornale in bianco e nero sugli anni degli atroci conflitti, tanto nella giungla vietnamita quanto sui cementi delle strade dell’intero pianeta, con l’odio razziale denunciato a pieni polmoni dal leggendario Muhammad Ali, applica in pieno la medesima formula di Leon Gast in Quando eravamo re. L’immediato proseguimento con i compari per la pelle che si ritrovano a Ho Chi Minh City richiama alla mente piccole grandi chicche incentrate sull’intesa virile della levatura di Last flag flying. In cabina di regià però Spike Lee, all’acume di combinare l’umor nero con le pieghe introspettive dell’apologo bergmaniano e le parentesi facete delle commedie d’avventura, preferisce il segno d’ammicco della classica caccia al tesoro. Gli elementi portanti risultano amalgamati a mestiere sul versante narrativo ma lasciano a desiderare per quanto concerne i movimenti di macchina. Sia quelli dal basso verso l’alto sia gli altri, intenzionati ad analizzare attraverso l’uso della tecnica cinematografica la natura interiore ed esteriore dei protagonisti e dell’habitat circostante, pagano dazio alle velleitarie tendenze formalistiche. Il contenuto umano emerge nei flashback, con la figura ovviamente di Norman sugli scudi, ed eleva la tensione crescente riposta negli spazi dell’orrore e dell’immaginazione ad antidoto contro l’inane déjà-vu.

DA 5 BLOODS (L to R) JONATHAN MAJORS as DAVID , ISIAH WHITLOCK JR. as MELVIN , NORM LEWIS as EDDIE , CLARKE PETERS as OTIS , DELROY LINDO as PAUL of DA 5 BLOODS . Cr. DAVID LEE /NETFLIX © 2020

Il confronto assai amaro dell’inviperito e logorroico Paul col figlio David alza l’asticella al pari dell’ingresso in scena della francesina esperta nello sminamento delle bombe disseminate nel luogo in cui la minaccia regna sempre sovrana. Il carattere morale tocca alcuni punti nevralgici nei lunghi scambi di sguardo che renderebbero superflue le modalità esplicative dei pur densi dialoghi. Avvezzi tanto ai toni colloquiali quanto agli intensi scambi dialettici. La realtà colta dal vivo, che aveva ceduto il passo al rimando citazionistico ad Apocalypse now, non plus ultra del war movie pieno zeppo di echi danteschi, riprende fiato. Lo studio della Divina Commedia non rientra a ogni buon conto nelle corde di Spike Lee, che preferisce inchiodare l’attenzione del pubblico per mezzo della struttura tripartita dei blocchi narrativi. Le funzioni di raccordo della parte documentaristica, forte dell’accorto montaggio, arricchisce lo spettacolo realista con la sostanza drammatica dell’evocazione del passato. Il ricordo del soldato immolatosi per nascondere una cassa zeppa di lingotti d’oro nella concreta speranza di riscattare la dignità ferita degli afroamericani, vittime del razzismo a stelle e strisce, non è certo una resa d’alta scuola. Sebbene il ricorso allo schermo diviso in diverse inquadrature, per catturare le reazioni mimiche dei cinque fratelli di battaglia e di speranza dinanzi alla notizia dell’assassinio di Martin Luther King, costeggi una ricercatezza meritevole di assumere una funzione creativa. Divenuta invece un mero interludio, nell’ambito di un’immediatezza espressiva a beneficio degli spettatori allergici ai grattacapi, il dinamismo dell’azione prende il sopravvento. Ed è giusto. Suona al pari di un cortocircuito fuori luogo quindi l’utilizzo della camera fissa attraverso l’automavision. Incline a conferire nerbo ed emblematica instabilità ai ritratti introspettivi di Lars von Trier.

Le peripezie in linea coi cult del genere – da I predatori dell’arca perduta a I Goonies – permettono invece al paesaggio di svolgere un ruolo di rilievo. L’effigie vorticosa della cascata consente agli spettatori di anteporre alla superficialità del vedere la profondità del guardare. I timbri, all’inverso, esornativi riservati all’interazione complessiva tra interni ed esterni impediscono di cogliere tout court la correlazione col territorio eletto a location. Il clima magico e ancestrale, teatrale ed epico ad appannaggio dei capolavori di Glauber Rocha è dunque precluso. I cinefili più scaltriti storceranno il naso per la scarsa complessità psicologica riposta nell’altalena degli stati d’animo. La carica di pathos quando David mette il piede su una mina e se la cava per il rotto della cuffia, grazie alla prontezza dei riflessi del padre sostenuto dal manipolo di amici di sempre e nemici dell’ultima ora, non basta a moltiplicare gli ambienti. La tendenza a strizzare l’occhio allo spettacolo brillante, senza perdere di vista i trapassi interiori cari più agli amanti delle soap opere che agli spettatori memori del bellissimo Il tesoro della Sierra Madre di John Huston, riserva punture di spillo molto risapute all’avidità, all’alcolismo e allo stress post traumatico. Il mordente latita. La qualità della recitazione no: Delroy Lindo, nel ruolo del sofferto Paul, gigioneggia con classe ed energia. Jonathan Majors alias David, al contrario, privilegia i modi asciutti. L’esito decisivo, a fronte dell’egemonia del brio sulla mestizia, oscilla nel pistolotto edificante. L’ingegno fiabesco – fedele all’attesa di un tenero cambio di rotta – traligna così in moine destinate a non lasciare traccia nella storia del cinema d’autore, che trascende l’onesto ma vano intrattenimento.

 

 

Massimiliano Serriello