Ogni tanto devo parlarvi anche di qualche film che non ho apprezzato, altrimenti meriterei le critiche di chi mi dice che sono troppo buona e non ho mai nulla da ridire contro niente e nessuno. Oggi, quindi, vi parlerò di un film che non posso definire brutto, ma che mi ha, tuttavia, profondamente delusa, perché viene presentato in un modo mentre poi si rivela tutto in un altro. Sto parlando di Dark, classe 2015, opera prima del regista Nick Basile. La pellicola, ambientata a New York, prende spunto da un evento realmente accaduto nella Grande Mela, ovvero il blackout senza precedenti che, il 14 agosto del 2003, si generò da un bug al software negli Uffici della First Energy Corporation, e portò alla morte di ben 11 persone. Su questo sfondo il regista decide di intessere una storia claustrofobica che vede protagonista la bionda Kate, insegnante di yoga ed ex modella, indecisa sui propri gusti sessuali e su cosa voglia fare della sua vita, con manie suicide, che si ritrova ad affrontare da sola questo momento di buio totale: ottima base per costruirci sopra un bel thriller, ma alla fine di thriller Dark ha ben poco, e si rivela, in fondo, decisamente più un film drammatico.

L’azione si apre con una scena molto forte di due belle ragazze che fanno l’amore, Kate, la bionda e femminile, e Lea, la moretta più maschile, secondo un clichè omosessuale abbastanza scontato. Delle due la più strana è Kate, che chiede a Lea di farle male durante il rapporto, cosa che Lea non accetterà, non volendo assecondare l’autolesionismo della compagna, che in passato ha cercato di farla finita tagliandosi le vene. Al mattino entrambe le ragazze si recheranno al lavoro, Kate nella scuola dove insegna yoga e Lea su un set dove fotografa modelle per una rivista di moda. Incontratesi a pranzo, Lea farà sapere a Kate che deve partire per qualche giorno, così che la biondina rimane da sola nel loft che condividono a Manhattan. Fin da subito si intuisce che Kate ha qualche problema mentale, non è serena, spesso si estranea e perde il contatto con la realtà, rischiando anche di finire sotto una macchina o di tagliarsi coi vetri di un bicchiere che involontariamente ha fatto cadere. Il suo equilibrio vacillante verrà duramente messo alla prova dal blackout che il pomeriggio stesso investe la città, portandola a fare cose senza senso fino a perdere completamente l’uso della ragione.

Bene, se Kate è confusa e non sa cosa fare della propria vita, ancor più confuso appare il regista Nick Basile, che, alla prima esperienza, si capisce benissimo che non sa che piega vuol far prendere al suo film. Innanzi tutto delinea la città di New York secondo i più abusati stereotipi che le si possono attribuire: lo yoga come moda del momento, la breakdance da tutte le parti, l’alta moda, ma anche il distacco che i cittadini prendono da una città che è sì viva ma che fagocita ogni essere umano come fosse un inutile granello di sabbia. In questa Big Apple dei clichè, Basile inserisce la storia lesbo delle protagoniste, che però finirà quasi subito sullo sfondo, per lasciare il posto solo ed esclusivamente a Kate, i cui tormenti sembrano, infine, essere l’aspetto che al regista interessa di più. E la confusione di Basile permea tutto il film, durante il quale più volte ci si chiede dove egli voglia andare a parare, quando arriverà la svolta che ci spaventerà o per lo meno ci sorprenderà, e ci farà capire che genere di pellicola stiamo visionando. Ma nulla, non succede nulla. Per ben 93 minuti di film non succede nulla di particolare, se non i deliri della mente fragile della protagonista.

Ed è pure un peccato, perché Basile, dietro la macchina da presa, non è affatto male, e potrebbe anche promettere bene per il futuro, se solo riuscisse a fare un po’ di chiarezza nella sua mente. Sì, perché in fondo la regia non è malaccio, e c’è un buon uso della tecnica del piano sequenza e dei primi piani introspettivi che mettono a nudo ogni cosa della protagonista, non solo l’anima, ma anche le imperfezioni del corpo e del volto, mostrandocela come una donna sfiorita, abbattuta, che è stata modella ma che ora non sa più nemmeno lei cosa vorrebbe essere, che vive in casa con la compagna, ma che non disdegna la corte ed i complimenti maschili. Per il ruolo, non facile, invero, di Kate, è stata scelta l’attrice statunitense Whitney N. Able, che si rivela davvero brava a reggere l’ansia e l’angoscia del suo personaggio tutte sulle sue spalle. Molti sono i monologhi che Kate reciterà verso un interlocutore immaginario, e pochi sono, in proporzione, i veri dialoghi che avrà con gli altri personaggi che in un modo o nell’altro le gravitano intorno: la bella e innamorata compagna Lea, interpretata da Alexandra Breckenridge, che i fan dell’horror ricorderanno in serie cult quali American Horror Story e The Walking Dead; il vicino di casa svitato e ubriacone, John, a cui presta il volto l’attore Brendan Sexton III, già apparso in film portanti quali Boys Don’T Cry di Kimberly Peirce, Session 9 di Brad Anderson e Black Hawk Down di Ridley Scott; ed infine l’amante occasionale che, durante il blackout, Kate va ad imbroccare in un bar, Benoit, detto Benny, interpretato dall’affascinante Michael Eklund, attore canadese che ha raggiunto la notorietà grazie al film di Terry Gilliam del 2009 Parnassus – L’Uomo che voleva ingannare il diavolo, dove recita al fianco di nomi del calibro di Heath Ledger, Christopher Plummer, Johnny Depp, Jude Law e Colin Farrell, pellicola tristemente nota perché Ledger morì improvvisamente mentre la stava girando. Quindi, come si vede, né il cast nè la regia sono assolutamente da buttare, ma purtroppo il film non ingrana.

Il fulcro intorno al quale tutto gira è la paura ancestrale del buio, di quello che potrebbe celare, che qui si lega ai tormenti ed alle zone d’ombra che già imperano nella mente di Kate. Il blackout cittadino vuole essere in realtà la metafora di ciò che sta accadendo alla bionda protagonista: nel suo cervello qualcosa si è spento, e piano piano un sacco di altre luci, che apparentemente parevano certezze, vanno spegnendosi sempre più, fino a portarla in un labirinto claustrofobico, figurativamente rappresentato dal palazzo nel quale vive, ma che soprattutto si trova nella sua testa. La lentezza, che io spesso apprezzo nei film quando è funzionale alla costruzione di pathos, qui in realtà serve solo per immergerci nell’angoscia della protagonista, senza però farci vivere emozioni particolari, cosa che a lungo andare non farà che suscitare nello spettatore una buona dose di noia e di speranze disilluse. Il ritmo non parte mai, nasce lento e muore lento, non arriva nessun colpo di scena ad interrompere la monotonia, neanche un piccolo jumpscare, che io generalmente odio ma che qui, probabilmente, avrei gradito per riscuotermi dal torpore. La tensione, anche quando viene creata, come nella bella ed ansiogena scena in cui Kate, senza apparente ragione, si mette a vagare nel buio più totale, armata solo di torcia, tra i corridoi tortuosi e le labirintiche scale del palazzo, non arriva mai ad un culmine, ad un apice, che ogni volta ci viene promesso, per poi negarcelo.

Cosa aveva in mente di realizzare Nick Basile? Un thriller? Un viaggio drammatico all’interno di una psiche malata? Una concatenazione dei due? Non lo sapremo mai, o quantomeno non guardando il film, in cui tutto rimane senza un vero filo logico, senza un disegno strutturato e portante, con una sceneggiatura che fa acqua da tutte le parti, ed in cui i personaggi appaiono e scompaiono letteralmente come fantasmi. In tutta questa vacuità, ho apprezzato molto l’idea di usare, come quasi unico sottofondo dell’azione, il rumore, in lontananza, di New York, del suo traffico, della sua gente, che non si ferma mai, nemmeno quando rimane completamente al buio. Ed è proprio con questo rumore, e l’alba che avanza, che si arriva al finale, nel quale si spera fino all’ultimo per risollevare un po’ la pellicola, ma che invece ci lascia delusi, come tutto il resto. Prevedibile e scontato, non rialza nemmeno un po’, ahimè, le sorti del film.
E pensare che il produttore esecutivo di questo Dark è un certo Joe Dante….vabbè, si sa, anche i grandi talvolta possono sbagliare….
https://www.imdb.com/it/title/tt2226321
Lascia un commento